
Usare l’Umorismo, far ridere in classe: come perché quando, e quando è meglio di no.
Ma partiamo dagli esperti: cosa dicono sulla questione? Rapida carrellata.
“Nelle nostre scuole si ride troppo poco”, ammonisce Gianni Rodari. Il fisiologo israeliano Avner Ziv, nel suo (introvabile) libro “Perché no l’umorismo?”, mostra come una sana ironia, se ben utilizzata, possa avere un ruolo importante e giovare molto ad insegnanti, educatori e studenti. Lo studioso Ferdinando Montuschi, poi, sostiene che “imparare a ridere in modo sano e liberante è forse uno degli obiettivi educativi più validi che la pedagogia possa garantire alle giovani generazioni”. Elisabetta Broli e Roberta Beretta, nel saggio “Da che pulpito: come difendersi dalle prediche”, ci illustrano la loro fulminante definizione di “predica perfetta”: “è come la minigonna: corta, aderente alla vita, aperta al mistero.” Per non parlar di come, negli ultimi anni, illustri professori “accademici” si sono interessati alla materia: intendo proprio studiosi nei cui corsi universitari si studiano gli effetti dell’umorismo nei più diversi ambiti sociali (cito, tra tutti, Giovannantonio Forabosco, Salvatore Attardo, Delia Chiaro, Ennio Monachesi). Tutti, in estrema sintesi, sottolineano come una mentalità “umoristica” non serve certo solo al comico, ma è utile per sciogliere tensioni in qualunque contesto sociale e di lavoro. Quindi (perché no?), anche in classe. Non c’è ragione per non usare tutto questo mentre insegniamo. Provateci ad andar giù di battuta, a fare i simpatici. Una risata rilassa, apre e distende: non c’è niente di meglio per ben disporre l’animo al lavoro.
Ma un altro interessante libro di Matteo Andreone e Rino Cerritelli, “Una risata vi promuoverà” (“Teoria e Pratica dell’Umorismo per il benessere aziendale e la crescita professionale”), che analizza anch’esso i vantaggi di un corretto uso dell’umorismo in ambiti lavorativi, ci mette in guardia: “Uno dei segreti base, forse il più importante, del saper usare l’umorismo, è capire quando sarebbe meglio non usarlo”.
Da cui, ecco qualche aneddoto in cui il sottoscritto ha fatto a scuola lo splendido, il simpaticone, il “garante del buonumore”, ma con esiti tragici. Oppure di quando gli è solo venuta in mente e fortunatamente non l’ha detta, s’è fermato prima.
Qualche anno fa avevo in classe molti casi con esigenze didattiche particolari (quelli indicati con la triste dicitura BES). Sapete quanto necessitino di specifica attenzione didattica e di tatto. C’era un alunno dislessico e anche straniero, da qualche anno in Italia. Non è stata una grande idea quella di far la battuta: “Ah.. dislessico e straniero.. quindi tu mischi e parli bene! Ahaha!!!”
Circolare Ministeriale di un po’ di tempo fa. Raccomandava, testuale, di “non comunicare le bocciature in maniera traumatica”. E come fai? Mi era venuto in mente di convocare alunno e genitori per dire loro: “Siete fortunati! I libri di quest’anno? Tornano buoni anche l’anno prossimo!”
Un’altra volta invece il proverbiale alunno fancazzista, quello svogliato che “non conosce libro”, si stava superando, con lo Spirito Santo special guest, nel miracolo di un’interrogazione epica, in cui non solo sapeva tutto ma forniva pure spunti ulteriori frutto di approfondimenti critici. Potevo risparmiarmi, per la sua autostima, di salutare l’evento con: “Bravo! Ma che è successo? Guarda che dopo facciamo l’antidoping!”
Altro? Visto che in Italia, si sa, esistono due tipi di scuole (le scuole private, e le altre, le scuole private di tutto), e che nella tua manca pure la carta igienica perché non ci sono fondi, il Dirigente Scolastico potrebbe non cogliere la valenza del tuo “Senta, Preside… visto che nessuno viene a richiedere i temi dell’esame di Stato del ’94… che dice? Tanto, quell’anno, pure le tracce erano di merda.. Tono su tono, non se ne accorge nessuno!..”. E neanche quando, spiegando, becchi due ragazzine in strafottente chiacchiera e le riprendi con “Scusate, vi disturbo? Salve, sono il prof.. Sapete, dovrei spiegare.. ma se vi intralcio vado via.. piuttosto, nel frattempo, prendete qualcosa? Caffè?”, vista la loro risposta: “Caffè già preso. Per noi può anche stare, non ci disturba affatto. Al massimo, glielo diciamo”. O con quelli alunni coi quali, alle solite giustificazioni per non aver svolto i compiti (io le chiamo le evergreen) sancisci un punto fermo dei tuoi rapporti didattici con loro: “Ragazzi, ci si può giustificare, ma al massimo tre decessi per ogni nonna”.
Tra i miei alunni c’è stato anche Rodion, ragazzo Rom. Che non solo (giuro!) cambiava posto ogni giorno, ma aveva pure la tendenza ad elemosinarti i voti: “Me scusi prof, tu mette almeno uno sette, tanta fortuna, io senza penna, senza matita”. Meno male che non ho ribattuto, quando non li faceva: “No, non hai fatto i compiti a casa!”, perché avrebbe legittimamente replicato: “No ce l’ho casa”. Pian piano però cominciava ad imparare l’educazione, il rispetto.. insomma, si correggeva: un giorno mi disse: “Prof, che cazzo vuoi? Ehm.. no.. Che cazzo vuole?”. Sono quelli, i momenti commoventi, per un educatore.
Per i pochi che non lo sapessero: con tutti questi alunni problematici si lavora su obbiettivi differenziati o addirittura minimi, nel senso che i docenti a quell’alunno richiedono meno argomenti e più semplificati. Ma potevo evitare di chiedere alla collega di Religione: “Anche tu applichi gli obbiettivi minimi? E cioè? Che almeno sappiano adorare un legnetto? Un totemino?? Ahaha!!”
Natale a scuola: caso Rozzano. Ragazzi, io davvero non so quale sia la soluzione, però, fortunatamente, il destino mi ha fermato dall’attuare la mia proposta quando qualche anno fa mi trovavo in una situazione simile. Avevo in classe un alunno musulmano, un ateo e un Testimone di Geova, quindi, la buttai lì, esplorativa: “È il caso di fare la tradizionale recita natalizia?” Ma ecco subitaneo il disappunto delle altre mamme cattoliche. Non volevo creare clamore polemico: oltretutto, pur essendo fermamente convinto della laicità della scuola, non sono neanche contrario al Crocefisso in classe, per me può restare (certo, purché non mettono la lavagna in Chiesa…). Comunque, pensavo di risolverla così: metter su comunque la recita, con questi tre alunni nella parte dei Re Magi in cerca di Gesù:
Alunno Musulmano: “Dirottiamo una stella cometa e schiantiamoci contro la stalla!”
Alunno Testimone di Geova: “Ma non sappiamo dov’è.. chiediamo almeno!.. Citofoniamo a qualcuno?”
Alunno Ateo: “Secondo me non arriviamo da nessuna parte..”.
Pochi giorni dopo mi hanno chiamato da un’altra scuola e non ne ho saputo più nulla. Ah, consiglio: attenzione a farvi scappare in classe anche soltanto un “Porca vacca”: equivale a una bestemmia, se hai anche un alunno induista di Calcutta.
In gita al Museo d’Arte contemporanea. Potevo non farlo, ma non ho resistito. Cosa? Coinvolgere tutti gli alunni, a fine percorso, in quella sapida gag: rientrare in gruppo nella sala dedicata ai più oscuri e astratti capolavori dell’arte concettuale, poi, rimettendosi le audioguide sulle orecchie, fermarsi, e con aria d’assorta riflessione, tutti insieme, in piedi, in silenzio.. fissare dritto… l’estintore. Non solo per il cazziatone del custode (e se ti rimprovera davanti ai tuoi alunni è finita), ma anche perché era prevedibile che l’immancabile giapponese, arrivando, ci sarebbe cascato: si è fermato anche lui lì e ha scattato una foto all’estintore.
Insomma, vi ho detto come non si deve fare, quindi, in questi casi, no. Ma per il resto, giù a far battute.. Quale? Ma è quello il punto! La cosa peggiore che potrei fare è suggerirvi un prontuario di battute da usare.. no, provate a sviluppare, rafforzare voi una “mente comica” che si abitui a scartare, su ogni questione, la prima cosa che viene in mente, perché sarà la più banale. E così che il vostro senso dell’umorismo farà palestra, e le vostre “battute” potreste crearvele da soli.
Ma una volevo rivelarla. La migliore, senza dubbio. Quella del mio prof. del Liceo, quando ci beccava a sghignazzare tra i banchi:
“Sì, ridi ridi… Ride bene che ride a giugno!”
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