
È il protagonista di Bela Hamann, il calciatore che visse tre volte, il racconto di Enrico Brizzi per la Smemo 12 mesi 2014.
Com’è nato per la prima volta nella tua testa Bela Hamann?
Leggendo le biografie dei grandi calciatori del passato, ai quali nel tempo della mia infanzia dedicarono importanti storie a fumetti per ragazzi: penso a Garrincha, Matthews, Beckenbauer, Pelé e tanti altri raccontati per immagini sul Giornalino dei ragazzi – la rubrica delle lettere era tenuta dal grande Facchetti, e, per un periodo, collaborò anche Michel Platini. Più grandicello, mi sono trovato a leggere di vite incredibili di tanti arcaici “globe trotter” del pallone, uruguagi, brasiliani e argentini fattisi “oriundi”; pionieri danubiani degli anni Dieci, Venti e Trenta, le cui storie sono indissolubilmente segnate dall’insorgere delle due guerre e dagli opposti nazionalismi; giocatori dimenticati del calcio periferico, come gli Eritrei e gli Etiopi che giocarono insieme agli Italiani in epoca coloniale, un’epica dalla quale è nata l’ispirazione per il mio romanzo L’inattesa piega degli eventi, uscito originariamente nel 2008, replicato in tascabile un paio d’anni dopo e, al momento, in attesa di una terza riedizione.
Alcuni personaggi del racconto sono esistiti realmente, come i tre fratelli Crocco che nei primi del novecento giocavano nel Genoa. Ho scoperto che proprio a Genova oggi c’è una fabbrica di dolci dei Fratelli Crocco. Ho provato a chiamare per scoprire come, dalla passione per il calcio, i discendenti siano passati a quella per il cioccolato. Una voce registrata mi ha avvisato che il numero è inesistente. Mi sembra un paradosso che rimarca questo misto di finzione e realtà che c’è nella tua storia. Come hai scelto gli altri protagonisti del racconto?
Mescolando le carte della realtà per favorire una rapida ripartenza; provando a vincere in contropiede lo scontato, sfruttando le corsie per servire direttamente le ali; pennellando cross precisi verso il centro dell’attacco, dove torreggia lo Stile ed è pronto a calciare di rapina l’Istinto.
Se dovessi pensare ad altre due vite possibili, chi potresti essere?
Da ragazzino avrei risposto qualcosa come Alessandro Magno, Tamerlano, Paolo Rossi o Fonzie.
Fonzie, a dirla tutta, non mi dispiacerebbe neanche ora.
Luce verde per il buon Arthur Fonzarelli, allora, e… Vediamo.
(Questa è l’ultima e, suppongo, dovrei giocarmela bene. Vediamo. Angelo Schiavio, duecento e passa gol con la maglia del Bologna? Wilbur -ma va bene anche il fratello Orville – Wright? George Best? Davide che sconfigge Golia? Ulisse che torna a Itaca e regola i Proci? Il mite Baldassarre dei Re Magi?)
Mi rendo conto che il tempo scorre… (Sandokan? Ma-til-de di Ca-nos-sa? ADAMO?)
Caldo qui, nevvero? Cosa? Dite che in questi ambienti ci sono diciannove gradi e mezzo costanti? Sarà. (Due vite. Due. E tu ti sei giocato la prima con Fonzie. Chi è causa del suo
mal pianga se stesso, direbbe mio padre… Mio padre… Ma si potrà? Pensa che razza di “sliding doors”, poter essere tuo padre. A ben vedere, anche essere tua madre sarebbe un’esperienza gratificante: finalmente non perderesti più la posta e sapresti sempre in quale cassetto si trovano i diversi oggetti necessari alla vita di ogni giorno… Mai più documenti lasciati in albergo, mai più risvegli stralunati domandandosi in quale città ci si trova, e mai più cattive compagnie.
E poi, pensa che scherzo supremo potresti giocare al cugino Vincenzo: lo inviti a cena, lui crede che sia Zia a ospitarlo, e all’improvviso gli sferri un gancio al volto e, ancor prima che possa sibilare un attonito “perché?”, gli vuoti in testa la zuppiera. Chissà che faccia farebbe. Solo dopo gli sveli l’arcano, che anche se sembri Zia in realtà sei sempre tu, quel pistola di suo cugino. E poi, dopo le pacche sulle spalle e le risate, ve ne andate al pub come nulla fosse. Però, se rispondo “mia madre”, a chi non mi conosce sembra strano. Molto strano. Certo che rinunciare allo scherzo a Vincenzo… Adesso decido. Fonzie, però, lo tengo di sicuro).
Su Tuttolibri del 2003 si leggeva: “A Brizzi serviranno dieci anni per farsi perdonare il successo di Jack Frusciante”. Come sono passati questi dieci anni?
Come i primi dieci, battendo sentieri lungo i quali non si sono addentrate troppe persone, e cercando di conservare lo spirito di quando, al liceo, puntavo la sveglia un’ora prima per scrivere un nuovo capitolo del romanzo che sarebbe poi diventato Jack Frusciante è uscito dal gruppo.
Nei titoli di coda della prima puntata della trasmissione televisiva Masterpiece hai detto: “Un errore frequente degli esordienti è quello che io chiamo IoLuismo, cioè inventarsi un personaggio che rispecchia esattamente la biografia dell’autore, solo è un po’ più figo”. Se ripensi ai tuoi esordi, quali sono stati i tuoi errori?
Credo che dai tempi di Jack Frusciante mi sia rimasta chiara una questione: per quanto un autore possa vivere un’esistenza semileggendaria – o, al contrario, ordinaria e piatta – i suoi romanzi non dovrebbero essere condotti come autobiografie. Serve “interplay” fra conoscenze reali e dimensione epica. Saranno gli altri, semmai, a credere di sapere qualcosa sulla tua vita vera, ma a te che scrivi, questo aspetto non dovrebbe interessare.
Fai parte della Società Nazionale di Psicoatletica: “una disciplina, una filosofia e uno stile di vita; il suo fondamento è il camminare, inteso come mezzo di liberazione personale in una società frenetica e alienata”. Anche un altro autore, Antonio Moresco, ha intrapreso un cammino da Mantova a Strasburgo per portare una lettera aperta al Parlamento Europeo. Rispetto a quello di Moresco, qual è il tuo punto di vista da camminatore?
Sono più attento alla prospettiva storica del cammino (di chi calpestiamo le orme?) e all’epica del viaggio stesso che si fa storia (quante vite di persone a me vicine sono cambiate per una decisione presa durante un viaggio a piedi? Quante storie incredibili ci sono capitate che, una volta riferite, sono state giudicate di pura fantasia?) rispetto alla descrizione della realtà circostante con una prosa di taglio sociologico. Non credo sia un caso se altri autori prediligono cammini “politicamente impegnati” e “aperti al dibattito”, mentre la caratteristica degli Psicoatleti è la riservatezza e, semmai, l’autorappresentazione in differita mediante libri o film, come avvenuto nel caso di Italica150, il viaggio che abbiamo condotto nel 2010 dall’Alto Adige alla Sicilia. Come al solito, eravamo partiti senza bisogno di nessun pretesto istituzionale, o endorsment da parte dei grandi quotidiani. La verità è che ci andava di camminare, di metterci alla prova, di ascoltare storie di prima a mano e, in ultimo, di vedere come andava a finire.
Abbiamo la fortuna di vivere in un paese meraviglioso, e lungo i sentieri c’è posto per tutti. Crepuscolari e futuristi, guelfi e ghibellini, ipertecnici, rilassati e “merenderos”, a ognuno il proprio stile, la propria strada e il proprio passo. L’importante è continuare a interrogare la Via.
Ogni agenda è l’autobiografia di un anno della vita di una persona. Qual è stata la tua agenda più bella?
Quella del 1992: ci ho fissato i miei appuntamenti con la prima ragazza della quale mi fossi mai innamorato, e quelli col primo editore che abbia mai preso in considerazione i manoscritti che inviavo in giro.
La cosa più bella che ricordi di aver scritto su un’agenda?
Uno sgrammaticato “Campeons delo mundo!!!” sull’agenda che, dieci anni prima, serviva come “diario delle vacanze”.
L’appuntamento che vorresti segnarti in agenda?
Se rispondessi spiritosamente “Brigitte Bardot a ventun anni”, un sacco di gente punterebbe il dito, o si offenderebbe. A questo genere di domande meglio rispondere: “Martin Luther King”. Che, a parte tutto, incontrerei davvero volentieri.
Quello che invece non vorresti avere mai?
Quello col me stesso di diciannove anni che mi guarda contrariato e dice: «Hai tradito quello in cui dicevi di credere, vecchio mio».
Il giorno che non vedi l’ora che arrivi?
21 dicembre. Le giornate torneranno ad allungarsi, all’inizio in maniera impercettibile e, via via, sempre più sfrenate, fino all’esplosione di vita della prossima primavera.
La scrittrice tedesca Christa Wolf ha scritto: “Un giorno all’anno, 1960-2000”, un diario lunghissimo ma sempre dello stesso giorno, il 27 settembre. Rigiro l’idea a te, mi descrivi una tua giornata di quest’ultimo periodo?
Onestamente, non ho giornate-tipo, e di rado dormo sette notti di fila nello stesso letto. So bene chi è vicino al mio cuore, ma di fatto vivo fra due città diverse, e mi sento a casa in parecchi posti. Dovunque poggio lo zaino, vorrei dire. O, forse, dovunque non devo essere io a tenere in ordine.
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