Povero, povero Finneas. Lui era da anni che cercava di diventare una rockstar, era anche riuscito a fare qualche concerto su palchi importanti con la sua band, gli Slightlys, e poi improvvisamente gli diventa rockstar la sorellina. Chissà che smacco.
No, ok, a parte gli scherzi. Finneas non è un piccino come noi, che si sentirebbe colpito nel suo orgoglio, se la sorella minore diventasse la più in vista della famiglia. No, lui probabilmente si è adattato abbastanza bene al fatto di essere il coautore di una serie di hit mostruose del pop americano dell’ultimo decennio, ad accompagnare sua sorella Billie nei tour mondiali, a imbarcare tonnellate di dollaroni, eccetera. Tutto sommato, c’è di peggio nella vita. Tanto più che – visto che Billie Eilish a questo punto è un marchio musicale che praticamente va avanti anche solo per inerzia – lui può anche permettersi di farsi i suoi dischi solisti. E viene fuori che non sono neanche male.
Optimist, semplicità pop degli anni Venti
Prendete questo Optimist. È tutto molto orecchiabile, e nonostante la voce sia spesso modificata, pitchata, autotunizzata, sovrapposta, beh hai l’impressione di ascoltare semplicemente un disco di canzoni pop. Molto più dritto, rispetto allo storto e allo strano che c’è sempre nelle produzioni per Billie. Non so se sia un bene o un male, ma comunque è un fatto.
La semplicità è però soprattutto la cifra dei testi, che a volte arrivano anche all’eccesso in questo senso, perché insomma, porsi il problema di “come si fa a cantare d’amore / quando ci sono ragazzi che muoiono”, supera di slancio il livello di ingenuità che possiamo accettare da uno di 25 anni. Che peraltro un po’ ne ha viste nella vita, dal punto di vista del music business.
Ma vabbè, le ballate non sono male. E siccome sono più o meno la metà del disco, almeno la metà del disco non è male. Basta non paragonarlo alle cose che ha fatto con la sorella. E che sono il motivo, alla fine, per cui ci spiace che Optimist pecchi solo di medietà.
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