
Lei aveva una marcia in più: non c’era.
O meglio, non era mai lì dove ti sembrava che fosse; magari il suo corpo sì, ma la sua mente vagava nelle insondabili perturbazioni galattiche. Quando le facevi una domanda, capitava rispondesse cinque o sei giorni dopo, a seconda di quando il suo cervello sarebbe passato di lì.
I nostri dialoghi duravano mesi, non perché fossero lunghi, ma perché erano pieni di attese.
L’avevo conosciuta sopra un ponte un giorno, che disegnava. L’ho salutata, lei ha continuato a disegnare. Ha continuato a disegnare me.
Per Natale mi invitò a casa dei suoi. A capodanno mi diede anche l’indirizzò e a carnevale mi passò a prendere alla stazione, dove l’aspettavo da un mese. Suo padre faceva l’insegnante di yoga. Lo trovai sul pavimento con la testa tra le gambe e le braccia sotto al culo. Si rimise diritto e disse:
– ah, tu allora sei il suo ragazzo?
Io sbiancai, guardai Giulia e balbettai:
– al massimo potrei essere la sua ragazza…
Lui sorrise compiaciuto annuedo:
– Una donna eh? Perche no?! Andiamo a sposarvi a New york.
Schiccò la lingua e spiegò soddisfatto che era nel suo carma andare a New yok per farci qualcosa d’importante:
– Per voi naturalmente.
Poi riprese la posizione facendo la Om.
Giulia, qualche giorno dopo, scoppiò a ridere al supermercato davanti al banco frigo.
– Cosa c’e amore?
Dissi guardano la scatola di surgelati che aveva in mano.
– No, niente, che tipo mio padre!
Per fortuna quel giorno non commentai…
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