La Storia Unplugged

di Antonello Taurino

Storie di Smemo
La Storia Unplugged

La storia è fatta di grandi interrogativi: come sarebbe andata se non avessero sparato all’arciduca Francesco Ferdinando? Dove saremmo oggi se Cristoforo Colombo non avesse scoperto l’America? Dov’è finito il biondino degli 883? Perché la fetta di pane cade sempre dalla parte imburrata, pure quando di burro non ce ne hai messo proprio? Perché il treno parte sempre in ritardo, tranne quella volta che ad arrivar tardi in stazione sei tu?

Il mio personalissimo grande interrogativo però, è un altro: cosa sarebbe della Storia se potessimo per una volta, anche una volta sola, ascoltare i grandi oratori, i grandi condottieri, i grandi artisti in originale? La loro vera voce, anche registrata, con il sottofondo della battaglia, dell’Agorà che ribolle, degli scalpelli che sminuzzano il marmo?

Una breve cronaca dei fatti. Siamo al Golden Gate Park di San Francisco, è il 10 dicembre 1915 e si sta tenendo la prima dimostrazione pubblica di un’invenzione che avrebbe cambiato il nostro modo di comunicare. È l’altoparlante a bobina mobile, inventato quattro anni prima da Jensen e Ridham: la prima volta di una voce umana catturata e amplificata in diretta. Non registrata o teletrasmessa (quello era già successo), ma proprio collegata ad un marchingegno elettrico per potenziarla e renderla meglio udibile a vaste folle.

Solo da lì in poi ci sarebbero stati microfoni o amplificatori e, soprattutto, una quasi incontestabile memoria.

Tutta le vicissitudini umane, fino ad allora, si erano svolte a voce nuda e senza lasciare traccia se non nella mente dei presenti, nella penna degli scribi e attraverso lo spurio e invalidante passaggio dalle forche caudine dell’udito dei presenti. Ci rendiamo conto? Tutti i grandi incontri di massa, da quelli più insignificanti a quelli che hanno segnato le decisive virate della Storia, i greci riuniti nell’Agorà, o le orazioni alle plebi romane, le prediche di Gesù alle folle dei primi cristiani. E pure le diete medievali, i primi Parlamenti in Inghilterra, Lutero, Savonarola, Masaniello, la Rivoluzione Francese, Napoleone, i moti del Risorgimento…

Tutto senza microfoni. Tutto Unplugged.

Ma ci pensate? Come hanno fatto fino ad allora? Siamo certi che quelli che ascoltavano, riuscivano a sentire decentemente? Arrivava la voce o era solo un brusio di fondo? A me questa cosa fa uscire pazzo. Magari avevano capito tutt’altro, hanno alzato la mano per votare proposte che avevano frainteso, hanno partecipato a rivolte convinti dall’infiammata oratoria di qualche capopopolo che però intendeva dire altro! Chi ci dice che la Storia sia andata veramente come la leggiamo nei libri? Chi ci assicura che Alarico, re dei Visigoti, non avesse gridato al suo popolo: “Volete voi della toma?” Quelli hanno capito Roma e ciao ciao Impero e imperatore!

Ora: non dico che la storia che studiamo sia tutta sbagliata, ma… quanto potrebbe essere stimolante alimentare il legittimo dubbio che un po’ lo sia? Possibile, no? Può essere che il 14 luglio 1789 un populista da strapazzo, davanti ad una prigione avvolta dalla calura parigina, abbia in realtà urlato:“Prendiamo tutti gelato alla vaniglia”?. D’accordo, comprensibile che troppo scandalo sarebbe ricaduto sulla Chiesa se si fosse scoperto che San Benedetto non solo viveva con due concubine, ma pare fosse anche solito alternarle: “Ora, la mora!”. Così come è appurato che Enrico IV, altro che conversione… Accennava solo al fatto che per opportunismo dinastico avrebbe dovuto ripudiare la prima moglie, Margherita di Valois, in favore della molto meno attraente Maria de’ Medici, con la sua celebre: “Parigi val bene una cessa”. Possiamo giustificare i nobili che negli immensi saloni di Versailles non riuscirono, manco loro, a sentir distintamente che Luigi XIV, un Tony Manero ante-litteram, signore indiscusso dei balli di corte che si svolgevano tra luglio e agosto, si limitava ad incensarsi con un “L’Ètè, c’est moi!”, “L’Estate sono io!”. Galileo poi stava solo mandando maledizioni di sfiga, augurando una repentina dipartita, a Papa Urbano VIII, quando sussurrò “Eppur si muore”. Fortunatamente, ormai concordi sono gli storici, invece, nel sostenere che mai Machiavelli la pronunciò, quella frase lì (almeno qui giustizia è fatta), ipotizzando che tutto nacque la sera che Nicolò suggerì agli amici di andare in quell’altra trattoria: certo più costosa, ma se assaggiavi le bistecche che ci facevano, come dire..  “Il fine giustifica i prezzi!”.  Personalmente, sono altresì convinto che Gesù avesse semplicemente detto “Amatevi gli uni gli altri senza nessun limite, solo fatelo con responsabilità” e che qualcuno avesse trascritto  “ ..solo evitate l’omosessualità”, ma su questo ancora non ho prove.

Quindi al lavoro, ragazzi: quali altri inganni della Storia riuscite a trovarmi? Quali altre frasi celebri sarebbero potute essere altra cosa da come ci sono state tramandate?

E questo è niente. Pensate agli accenti, alla voce, alla pronuncia dei grandi. Se l’uomo, insieme alla ruota, avesse inventato anche il magnetofono, oggi magari sapremmo che, ad esempio, l’Unita d’Italia fu fatta da gente che masticava poco l’italiano. Cavour parlava e scriveva solitamente in francese, Vittorio Emanuele II in piemontese (o francese), e Garibaldi e Mazzini (nizzardo uno, genovese l’altro), parlavano più o meno come il Gabibbo: “Belin, fijeou, qui si fa l’Italia o si muore”. E anche Napoleone, che non disdegnò per tutta la vita di esprimersi nel dialetto della sua “Corsica terra natìa”, probabilmente ci avrebbe ricordato un po’ Gilberto Govi: “Belin, soldati, c’è da fare un culo così agli Austriaci ad Austerlitz!”

Al momento dell’Unificazione, dati certi, solo il 10% circa parlava correttamente in italiano. Che, sia chiaro,  è una percentuale comunque un po’ più alta di quella riscontrabile ad un raduno della Lega, ma quel 10% lo faceva comunque con una fortissima inflessione regionale: pensate, anche gli intellettuali, la gente istruita e gli scrittori parlavano con la cadenza di Antonio Razzi o Aldo Biscardi.

E qui cari ragazzi che la Verità del Suono richiede ancora, inflessibile, il suo tributo. Vi invito impavidi a leggere, anche solo per divertimento, le opere di ogni autore che studiate con la l’inflessione dialettale della zona in cui quell’autore è nato, perché è come le avrebbe lette lui! Non avendo documenti sonori, va bene anche collegare ad ogni autore un personaggio famoso di oggi proveniente più o meno da quella zona lì. Pascoli era romagnolo: le sue poesie, dalla sua viva voce, sembrerebbero oggi declamate da Valentino Rossi o da Giuseppe Giacobazzi, altro insigne poveta romagnolo. Ancora meglio con Manzoni, che pure lui parlava spesso in francese, ma è decisamente più figo il “Il 5 maggio” in cadenza da baùscia milanese del Commendator Zampetti: “..dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno..  e sei in pole position! Te capì? E Leopardi? Giacomino nostro era marchigiano: se avesse letto la sua struggente “A Silvia” a qualche donzella, si sarebbe sentito qualcosa di molto simile alla voce di Martufello. Davvero!

“..e du, lieda e bensosa,

 il limidar de giovendù saliui? Di più nin zò!”

Io non ci dormo la notte, Giacomì: per carità, scrivi bene, ma così ovvio che poi le ragazze scappano… Insomma, “non te la danno!”

(espressione che Giacomino usava spesso, così come le parolacce. Non ci credete? Guardate qua..

 

(Scritto con Carlo Turati)