Le serie tv preferite dalla redazione Smemoranda!

di Alessia Gemma

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Ammettiamolo, ci stiamo annoiando tantissimo. Troppo tempo in casa da soli non fa bene. Però menomale che hanno inventato le serie tv. Pensa questo periodo senza serie! Non ce l’avremmo fatta, no. Anche noi della redazione Smemo ci siamo ovviamente imbottiti di serie e ognuno di noi ne ha al momento almeno 5 preferite.

Ne abbiamo però scelta una a testa. Buona visione.

Michele Mozzati ha scelto…

Avrei voluto parlare di molte serie televisive, alcune imperdibili per qualità e intelligenza. Senza fare quello con la puzza sotto il naso, dico qui che non sempre le più famose sono le più belle. Avrei voluto, ma ne hanno già scritto gli altri, qui sopra. E sono contento, per esempio, che Nico abbia citato SanPa e Giovanna La fantastica signora Maisel e Caterina, se non sbaglio, Unortodox.

Tre serie tv che sono tra le mie preferite in assoluto e che anche io consiglio. Dunque, ho fatto fatica a decidere tra due (di venti!). Una, di cui non dirò, è la sofisticata e provocatoria Fleabag, forse non così divertente e indicata per i più giovani tra i giovani.

Non mi resta che parlare di The Eddy, (Netflix) otto puntate secche ambientate a Parigi, ma scritte e girate da americani. È la magica storia di un locale di musica jazz (musica originale buonissima!), “The Eddy”, appunto, gestito da un ex musicista e da un suo amico di origini nordafricane. Il regista è Damien Chazelle, pluripremiato, Oscar compresi, (La La Land, Whiplast…).

Una storia bella, con una trama accattivante e dei momenti più intimi, per esempio quelli riguardanti il rapporto difficile e formidabile tra una giovanissima figlia e un giovane padre. Insomma, da non perdere. The Eddy commuove, coinvolge, fa riflettere, fa godere per colonna musicale originale (la trovate sulle piattaforme) e ambientazione (le periferie, la banlieue parigina). Buon divertimento.

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Giovanna Donini ha scelto…

“Tutti i comici sono comici perché qualcosa nella loro vita è andata orribilmente male. Qualcosa è andata a puttane.” Già solo per questa frase che è l’incipit di uno dei tanti fulminanti e irriverenti monologhi comici di Mrs Maisel, questa serie tv distribuita da Amazon Prime Video merita rispetto e ammirazione. Questa frase è l’essenza più vera e pura della professione del comico.

New York, Anni Cinquanta. Miriam “Midge” Maisel è una casalinga devota al marito che però la tradisce e la lascia quindi in un attimo le distrugge la vita. Ma Come reagisce lei invece di disperarsi (ubriacarsi e iscriversi in palestra) come fanno tutte all’epoca?

Da vera comica. Sale sul palco dove il marito si esibiva, credendosi un comico ma senza esserlo (non c’è cosa peggiore), prende in mano il microfono, racconta le sue sfighe (e quelle delle donne alle prese con una società ultra maschilista) e così scopre di avere, a differenza del marito, un senso dell’umorismo fuori dal comune e una capacità invidiabile di stare sul palco.

Da quel momento in poi la sua vita cambia radicalmente.

Tutto quello che fa, osserva e sente la Fantastica Signora Maisel lo racconta con un microfono in mano davanti al pubblico dei locali notturni di New York, spesso interrotta dalla polizia, come capita a Lenny Bruce e a tutti i comici più irriverenti.

Tre stagioni, una valanga di Emmy, se la vedi non puoi non innamorarti di Rachel Brosnahan che interpreta la fantastica Midge e di Alex Borstein che interpreta Susie Myerson la manager di Midge infine non puoi non innamorarti del bad boy Lenny Bruce interpretato da Luke Kirby.

“La comicità è alimentata dall’oppressione, dalla mancanza di potere, dalla tristezza e dalla delusione, dall’abbandono e dall’umiliazione. Ora, chi diavolo descrive meglio questo fenomeno più di una donna? Giudicando con questi standard, solo le donne dovrebbero essere divertenti.”

La Fantastica Mrs Maisel.

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Laura Giuntoli ha scelto….

Droga, sesso estremo, psicofarmaci, body shaming, violenza. Nonostante questi ingredienti siano una costante di molti teen drama recenti, Euphoria (HBO) li mette in scena senza cadere nei soliti stereotipi. Perché non è tanto cosa ci racconta, ma come lo fa.

Rue (interpretata da Zendaya, l’attrice più giovane ad aggiudicarsi un Emmy Awards come Miglior Attrice di una serie drammatica) ha 17 anni quando torna a casa dal rehab; c’è finita a causa di un’overdose e ci è rimasta per tre mesi. Alle spalle ha un’infanzia segnata da una situazione familiare difficile, attacchi di panico e turbe psichiche.

Mentre cerca di rimanere pulita incontra Jules (interpretata dalla modella e attivista Hunter Schafer), una ragazza transgender che si è trasferita da poco in città insieme al padre.

“Non c’è nulla sul pianeta Terra che sia paragonabile al fentanil, tranne Jules”, pensa Rue. E ha ragione. Jules è un raggio sole, è la sua occasione di felicità. Alla storia delle due ragazze si intrecciano le vicende borderline dei compagni di scuola, anche loro sono alla ricerca di una dose di euforia che li salvi dall’abisso, non importa da dove arrivi, se dall’amore, dalla droga, dal sesso.

Euphoria ci mostra i loro traumi da vicinissimo, racconta questi ragazzi nei loro momenti più bassi senza mai giudicarli, senza filtri e usando i filtri (di Instagram), abbagliandoci con i colori al neon saturati al massimo della loro doppia esistenza vita social / vita reale e riempiendoci le orecchie con una colonna sonora intensa e potente. Non a caso il produttore esecutivo è il rapper Drake, che ha coinvolto nella scelta dei brani il Dj Future the Prince (qua la playlist di Euphoria su Spotify).

Euphoria ha uno sguardo nuovo, in bilico tra la realtà più brutale e la poesia più sublime. Anzi, è proprio l’empatia (o catarsi, se preferite) a sublimare lo spettatore, a dare anche a lui la dose di euforia necessaria per sopportare la tragedia della messa in scena. Attraverso i suoi personaggi ci ricorda che sì, crescere è una guerra con se stessi, che l’adolescenza è fottutamente dolorosa e autodistruttiva.

Ma anche che possiamo sbagliare e ricominciare tutto da capo, sbagliare di nuovo e ricostruire sulle nostre macerie emotive. In fondo, siamo tutti dei sopravvissuti.

In attesa della seconda stagione, posticipata a causa del Covid ma in programma per il 2021, Sam Levinson – creatore e scrittore della serie – ha regalato ai fan un episodio speciale – e credetemi, lo è davvero – dedicato a Rue e girato quasi interamente in una tavola calda. Un secondo episodio speciale con protagonista Jules uscirà il 24 gennaio. Euphoria è disponibile su Sky Atlantic e su NowTv.

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Gino Vignali ha scelto…

“Ho sempre sognato di buttar giù un motociclista. Detesto quel loro vizio di sgasare senza motivo.” A dirlo è Tony, un giornalista di una testata di nessun rilievo di una provincia inglese di nessun rilievo. Lui ha appena perso la moglie per un tumore al seno e sta cercando serenamente di farla finita. Suo padre ha l’Alzheimer, paga una prostituta perché gli lavi i piatti, odia i bambini e sta cercando di imparare a drogarsi. Questo, più a meno. La serie si chiama “After life” ed è una produzione originale Netfix.

Sì, ma cosa dovrebbe spingere una persona sana di mente ad avventurarsi nella visione di tali abissali tristezze? Semplice, Tony è Ricky Gervais, uno dei più grandi comici al mondo, forse lo stand up più famoso e idolatrato del panorama anglosassone, uno che fa ridere senza aver mai detto una battuta, uno che ha presentato sei volte la cerimonia di premiazione del Golden Globe, uno che… insomma, uno che è una leggenda.

Quindi, non perdetevi “After life”, imparerete che la tristezza, la disperazione, la solitudine non hanno un’unica chiave di lettura. E scoprirlo, oggi, può fare molto bene. Ma anche domani.

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Nico Colonna ha scelto…

Senza pregiudizi su “Sanpa” perché sono convinto che nessuno abbia mai avuto la cura certa per convincere una persona che sceglie l’autodistruzione, per mille e più motivi sempre molto delicati e soggettivi, a smettere di bucarsi. Con un po’ d’ansia per il motivo che, essendo cresciuto in un quartiere di Milano molto inquinato dall’eroina, ho dovuto piangere diversi conoscenti e amici uccisi dal taglio di stricnina prima e dall’AIDS poi…

Di certo però confermo che “… non si guarisce un tossico a colpi di botte…”. Cazzotti, catene e segregazione violenta, il tutto gestito non più solo da un uomo (di destra) in pieno delirio di onnipotenza convinto di essere Dio in terra di Romagna, ma anche da adepti, ex tossici incattiviti e in cerca di un impossibile riscatto esistenziale.

Va sottolineato a onor del vero che non c’erano proposte alternative reali, spesso ci si nascondeva dietro “… bisogna agire sulle cause non solo sugli effetti…” il che metteva a posto le coscienze e non si faceva nulla o quasi di concreto, a differenza di Muccioli, per aiutare i tossicodipendenti.

L’altra evidenza clamorosa messa in luce dalla serie è l’assenza totale dello stato sia in termini di repressione dello spaccio (quanti interessi si nascondevano dietro questa latitanza!) che di assistenza alle migliaia di ragazze e ragazzi coinvolti nell’uso delle droghe pesanti; assenza forse voluta anche per “togliersi dalle scatole” una generazione fastidiosa, ricordiamoci che siamo alla fine degli anni settanta.

Una cosa è clamorosamente passata in secondo piano nella fotografia della vita dell’ambizioso Muccioli: il business che attorno a San Patrignano è lievitato negli anni, dopo una partenza artigianale, forse a misura di ragazzo: scuderia con un centinaio di purosangue, cantine di vini e prodotti alimentari, allevamenti, edificazioni importanti e tanto altro, comprese donazioni miliardarie prima e milionarie poi da parte di importanti famiglie industriali.

Ecco sono convinto che nella prima fase l’aiuto ai ragazzi era veramente un “fine” della comunità, trasformatosi poi nel “mezzo” per un grande affare e per una vita di fama, soldi e potere di Muccioli, aldilà di ogni sua più rosea previsione esistenziale.

Comunque, “Sanpa” mi è piaciuto, alla fine l’obiettivo voluto (credo) dai produttori è stato raggiunto, ne stiamo parlando in tanti, ci stiamo confrontando tra generazioni, ancora oggi senza certezze e risposte pronte da parte di nessuno.

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Alessia Gemma ha scelto…

Una ragazza turca (col velo, sarà importante per la storia) di un villaggio di campagna alle porte di Istanbul che va per la prima volta dalla “dottoressa”, dall’analista super metropolitana nel centro di Istanbul e che però deve chiedere il permesso all’Hodja del villaggio, il maestro spirituale.

L’analista che però intimamente odia il velo e non sopporta chi lo porta e che a sua volta va da un’altra analista che emancipata da una famiglia ancorata al passato…

Una terapia collettiva, vite che si intrecciano, passato e presente che combatte in ogni persona, rapporti familiari devastanti anche quando ci si crede liberi, maschi ancora troppo insensati e in piena crisi… Barriere socioculturali che verranno però in qualche modo travalicate.

Uno spaccato di modernità e attualità anche emotiva e psicologica che non riguarda solo la Turchia ma tutti noi. In Italia si chiama Ethos, in Turchia, dove ha fatto scalpore, si chiama Bir Başkadır. La trovate su Netflix.

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