
Emma mi vede da lontano e mi corre incontro urlando, felice come non mai. Dice, saltando, che stasera c’è la family night al suo campo estivo e che dobbiamo assolutamente andare. Provo un leggero cedimento, perché preferirei farmi fare un pap test, e prendo tempo. “Vediamo”, le dico. “Pleeeeease! Please! Please! Please!”. La sua animatrice del campo la sente, e si rivolge a me: “È divertente, dovreste venire…” Mai nessuno che si faccia i cazzi propri. Intanto torniamo alla macchina, che è presto e magari tra un’ora si dimentica. Provo a proporle una cena io e lei nel ristorante che le piace, ma non c’è verso. Alle cinque e mezza in punto scatta dal divano e fa: “let’s go”. Strisciando i piedi esco. Lei è al settimo cielo. Tento disperatamente di farle cambiare idea, ma questa volta non ce la faccio proprio.
Arriviamo che ci sono già una ventina di macchine. La sede del campo estivo è bellissima: un enorme prato, su cui i bimbi giocano tutto il giorno, e dove troneggiano delle altalene e delle porte di calcio; un lago dove vanno a nuotare e in canoa. Emma mi fa fare un tour, ma io sono più affascinata dagli altri genitori che, a differenza di me, sembrano felici di essere lì. Sembrano tutti in divisa: tutti gli uomini hanno pantaloni corti, calze e sandali, e tutte le donne hanno vestiti anni ottanta a fioroni blu o verdi. Tutti con un bel sorriso, come se aspettassero questo evento da mesi. Dai, Marina, mi dico: la solita snob. E poi invece vedo una coppia quasi normale: lui belloccio, alto, e lei (presumo la moglie) sfoggia un piao di jeans e una maglietta nera: quasi normali.
Suona una campana e Emma mi dice, allarmata: “dobbiamo andare al cerchio!” No, il cerchio no, ti prego….E invece lei mi prende la mano e mi trascina. Tutti gli altri genitori hanno infatti già formato un grande cerchio nel mezzo del prato, e io mi dico: se dobbiamo dire i nostri nomi per conoscerci, io vado in macchina a piangere. Trovo un posto vuoto vicino al belloccio e alla moglie e mi fiondo, li guardo come dire: ‘che sfiga, vero?’, ma loro sorridono beati. Non hannno capito. Parla la direttrice del campo, che sembra essere entusiasta e felice. Dice il suo nome, e dice che adesso tutti quelli che lavorano al campo devono dire il loro nome e la loro parola preferita. Sento un tonfo: sono le mie palle cadute dai miei seppur stretti jeans. I genitori intorno a me invece sono contenti, curiosi addirttura di sapere quale sarà mai la parola preferita di Jennifer, o di Peter. Dopo averle scoperte, ridendo ad ognuna e applaudendo un po’, viene chiamato uno degli animatori con il suo gruppo nel centro del cerchio per invitarci, tutti, a cantare con lui. No, dico tra di me. Io non ce la faccio. Intona una di quelle canzoni che devi muovere prima la mano destra, poi quella sinistra, poi saltare sul piede destro e su quello sinistro. Infinita. In confronto la Fiera dell’Est è corta, per dire. Io ovviamente guardavo attonita quei deficienti dei genitori e anche qualche nonno saltare felici come delle pasque al ritmo della canzone. Mi è salito su per il gozzo un fortissimo conato di imbarazzo per questa gente. Ma poi ho capito con disprezzo che loro si divertivano davvero, ce la mettevano tutta a stare in bilico su un piede mentre battevano le mani. Anche la coppia figa di fianco a me (lui soprattutto) ha partecipato sghignazzando con entusiasmo.
Finalmente la canzone finisce e uno scroscio di battito di mani manco fosse Bruce Springsteen precede un’altra campanella: sono pronti gli hot dog (alé). Il cerchio si scioglie velocemente, perché agli americano entusiasti di tutto non puoi far mancare gli hot dog, gli hamburger belli unti, le patatine, la limonata rosa (rosa, sì). Si fa la fila e ci si siede ai tavolini. Io e Emma ne scegliamo uno appartato, nella speranza di non dover far conversazione con nessuno. Mangiamo in silenzio. Non faccio in tempo ad addentare il mio hotdog marroncino (che schifo!), che una mamma bionda con la mollettina, truccata e ingioiellata mi fa: “Hi!” manco mi conoscesse da anni. Sembrava davvero felice di vedermi. La saluto con lo sguardo di chi implora il silenzio, ma lei parte in quarta. In sette minuti so che: si chiama Carol, è di un paesino nello stato di New York, ma dieci giorni fa ha fatto il trasloco (che stress i traslochi, mi dice), che ha due figli, maschi, che è la prima volta che vengono al campo, che lei e suo marito si sono incontrati a Cambridge mentre studiavano per il dottorato.
Io avevo il sorriso stereotipato stampato in faccia che già cominciavano a far male i muscoli delle guance. Annuisco con la testa, come dire, che belle cose che mi dici! Poi fortunatamente io e Emma finiamo in fretta e dico :’We have to go!” “Bye!” mi dice quasi dispiaciuta. Emma mi fa: “Andiamo sulle altalene?”, ma io la trafiggo con gli occhi e capisce che sono irremovibile. Arriviamo a casa, lei felice e io con l’hot dog sullo stomaco.
L’entusiasmo degli americani è snervante.
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