Orche di Natale al largo di Genova

di Mia Canestrini

Sei una bestia - Storie di Smemo

Hanno un nome tremendo, killer whales, letteralmente orche assassine. Con un nome così, se fosse tutto vero, io non vorrei vederle nemmeno in un cartone animato. E invece le orche di assassino non hanno granché, a parte l’essere predatori al vertice della piramide alimentare di mari e oceani di tutto il mondo. Il che non le rende cattive, magari particolarmente spaventose solo se state prendendo il sole su un pezzo di pack al circolo polare artico, dove potreste essere scambiati per una foca, ma siccome mi sembra un’eventualità dubbia, diciamo che i gusti alimentari delle orche non ci toccano.

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Di orche in questi giorni si parla tantissimo, e se ne parla con accento genovese, in piedi di fronte al porto, con un pezzo di focaccia in una mano e un binocolo nell’altra. Sono quattro, sono in cattive condizioni e soprattutto sono lontanissime da dove vengono solitamente avvistate, lo Stretto di Gibilterra. Notate per la prima volta il 1 dicembre nelle acque tra Voltri e Prà, erano accompagnate da un piccolo che poi è morto. La madre lo ha assistito per giorni nel tentativo di tenerlo in vita e infine si è arresa, lasciandolo andare sul fondo.

Si tratta di una storia triste, conoscendo la biologia di questa specie: le orche stringono con i loro figli legami profondi e trascorrono insieme diversi anni prima che questi siano pronti a riprodursi e prendere, per così dire, la loro strada. Un po’ come noi. Anche le orche conoscono il dolore della perdita, vivono un periodo di lutto dopo la morte dei loro piccoli e necessitano di tempo per elaborarlo. Probabilmente è quello che sta facendo la femmina del gruppo che non sembra avere alcuna intenzione di lasciare il porto. Non è la prima volta che questi comportamenti vengono osservati: in altri mari le orche hanno trascinato i loro piccoli morti per settimane, tenendoli a galla con la speranza che si riprendessero, che ricominciassero a respirare.

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Mi sono sempre chiesta quanto sia corretto umanizzare gli animali per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della loro conservazione. Farlo di base non è consigliabile: gli animali sono meravigliosi proprio per il fatto di essere altro rispetto a noi e paragonarli agli esseri umani può creare sciocchi fanatismi.

L’ animalismo estremo nuoce agli animali tanto quanto il bracconaggio. Però si può trovare un equilibrio, per due motivi: il primo è che l’uomo ama le storie, ama raccontarle e ascoltarle dalla notte dei tempi, e attraverso le storie ha sempre tentato di insegnare o imparare qualcosa. Il secondo è che, in effetti, anche noi siamo pur sempre animali, mammiferi per di più, come le orche o i lupi. Volenti o nolenti, condividiamo con loro gran parte della nostra storia evolutiva come organismi viventi e una serie di caratteristiche biologiche per le quali possiamo davvero specchiarci gli uni negli occhi degli altri.

Quando racconto di lupi mantengo sempre un atteggiamento neutrale, ma non mi risparmio nel raccontare le storie più particolari, storie con un lupo protagonista con un vero nome, proprio per andare incontro a chi fa più fatica ad accontentarsi della scienza pura e dei tecnicismi, a chi ha bisogno di provare un’emozione in più ascoltandomi blaterare di ecologia alimentare o di rogna sarcoptica. Alcuni lupi, come alcune orche, possono diventare ambasciatori della loro specie proprio con le loro storie di vita e di morte.

Così la mamma orca del porto di Genova, con il suo desiderio disperato di non perdere il cucciolo, un desiderio che chiunque può comprendere, può raccontare agli italiani e al mondo una storia più grande. Ci racconta di un mare sovraffollato e sfruttato, il Mediterraneo, che non è solo pescherecci, navi container, piattaforme petrolifere e stabilimenti balneari, ma anche via di navigazione per mammiferi marini straordinariamente lontani dal nostro immaginario come le orche, pronte a solcare le acque di Spagna e Sardegna fino alla Liguria.

Ci racconta di un evento straordinario e straordinariamente preoccupante: le acque di Genova non sono un posto da orche e il loro arrivo desta molti interrogativi tra i ricercatori. Potrebbero essere vittime di disorientamento da inquinamento acustico e ambientale, potrebbero avere ingerito plastica e non riuscire ad alimentarsi, potrebbero essere malate.

Insomma, ci racconta ancora una volta di una specie che potrebbe subire le nostre scelte anti – ecologiche fino a spingersi dove non dovrebbe, per la sua stessa sopravvivenza. E poi ci permette di raccontare di un animale con un dialetto specifico per ogni gruppo sociale e in grado di apprenderne di nuovi, una capacità che ha aperto la strada a nuovi studi sull’evoluzione del linguaggio umano. Un dialetto, quello delle orche del porto, che aiuterà i ricercatori a comprendere da dove arrivino esattamente.

Ogni popolazione di orca ha una sua specializzazione alimentare e mentre alcune sono residenti stabilmente, altre viaggiano su e giù per gli oceani tutto il tempo. Il che non descrive semplicemente le orche dal punto di vista ecologico, ma pone seri problemi sulle strategie di conservazione da adottare in futuro, strategie che devono essere per forza di cose internazionali e che ci costringono a collaborare e a uscire dal nostro piccolo mare.

L’orca di Genova ci racconta infine di un porto sicuro, di un porto da lasciare e ci costringe a guardare e reinterpretare i luoghi che conosciamo e amiamo con occhi diversi. Gli occhi di un’orca. Chi l’avrebbe mai detto.

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