Piatto Baricco, mi ci ficco (ze power of DIY)

di Alberto Forni

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Piatto Baricco, mi ci ficco (ze power of DIY)

Allora, insomma, andando al #SalTo12 mi ero detto che se le fascette dei libri erano questa cosa qua

cioè delle cose che sembrano fatte con l’unghia del mignolo della mano sinistra alle 18 e 27 del venerdì pomeriggio mentre ti stai infilando la giacca e ti squilla il cellulare e nella tua mente è già partito il pensiero della lotta per la soppravvivenza che ti toccherà fare al supermercato, se erano quelle cose lì, mi dicevo, anche io potevo dare il mio contributo, potevo realizzare delle fascette e donarle ai libri che ne erano privi. Perché diciamocelo, oggi come oggi, cos’è un libro senza fascetta? (Che fra l’altro ha un duplice scopo: da una parte serve ad attirare l’attenzione del lettore, dall’altra a mascherare il più possibile la bruttezza di molte copertine.)

E in effetti, appena arrivato, mi ero subito reso conto di aver fatto bene a realizzare queste fascette perché mi ero imbattuto nel nuovo libro di Baricco, uno scrittore bravissimo che a me è sempre piaciuto tantissimo (e senza timore di sbilanciarmi posso prevedere che mi piacerà sempre, anche per dire nel 2021), e questa nuova opera di Baricco se ne stava lì tutta disadorna senza neanche una fascetta, uno strilletto, una mezza marchetta, niente. Allora avevo pensato di fare qualcosa perché, insomma, anche se era uscito da poco, questo nuovo capolavoro di Baricco un premio se lo meritava sicuramente. Fosse pure sulla fiducia.

Subito dopo mi ero recato nello stand della Bompiani con l’intenzione di sostenere il nuovo libro di Isabella Santacroce, una scrittrice difficile da definire, che non si lascia ingabbiare facilmente dentro anguste definizioni, una che si muove agile tra punk, emo, gothic, electro, trance, jungle, progressive e mazurca. La mia fascetta voleva appunto tentare di offrire qualche indicazione in più ai potenziali lettori, dare magari un piccolo contributo critico per la catalogazione della sua opera.

Il problema era che dentro allo stand della Bompiani tutto appariva così algido e professionale e asettico e molto oltre il post modern, quasi sfiorando pericolosamente il post mortem, che avevo paura che se mi fosse caduta per terra anche solo una caccoletta degli occhi, sarebbe immediatamente scattato un allarme e sarebbe saltata fuori Elisabetta Sgarbi a rifilarmi delle bacchettate sulle mani.

Alla fine, tuttavia, grazie anche a sottili tattiche di fascettamento, ero riuscito a portare a termine il mio compito.

 

Quelli di Minimum Fax invece, che sono dei gran furbacchioni*, non solo si erano prestati fin da subito al gioco

ma per tutta la durata del Salone avevano continuato a esporre il loro bestseller hipster Premio Pulitzer trendsetter e dio-solo-sa-cos’altro con la mia fascetta bene in vista – tanto che a distanza di un anno la gente ancora se lo ricorda – e la cosa alla fine mi aveva sì inorgoglito ma allo stesso tempo tolto un po’ di soddisfazione e fatto venire la mezza idea di essere stato io stesso, che andavo per perculare, perculato attraverso una fine operazione di metaperculatura (questa non l’ho capita bene neanch’io, ma vuol dire che, insomma, mi sentivo che me l’ero presa in quel posto).

Avevo poi lasciato altre fascette in giro di cui una, agli amici della Einaudi, per cercare di ristabilire un rapporto sano e senza ombre fra editori e lettori (scegliendo forse il libro sbagliato per dare inizio a una campagna del genere: non si possono offrire due opzioni quando una è in pratica inesistente, ma era solo per dare un’idea).

 

A un certo punto, quasi all’improvviso, mi ero trovato davanti al sancta sanctorum, alla cattedrale delle fascette, al paradiso delle promozioni editoriali, ovvero lo stand della Newton Compton – che ai miei occhi appariva come un miraggio, come la lucina del furgoncino del lurido quando sono le tre di notte e hai voglia di un panino. Qui, dopo aver innalzato una preghiera di ringraziamento al dio delle fascette, mi ero tuffato in quel gran mare di libri e avevo apposto una autoproduzione che però, per quanto avessi tentato di spararla grossa, in mezzo alle superlative fascette Newton Compton non riusciva a distinguersi più di tanto (al punto che almeno fino al termine della giornata era rimasta lì; la gente si fermava, guardava, probabilmente si diceva cose del tipo: “Non credi che abbiano esagerato?”, “Sì, hai ragione, al massimo dell’ultimo secolo.”).

Alla fine mi ero imbattuto nell’unica, vera, grande star del Salone. Una star che merita uno spazio adeguato e un’attenzione particolare. Per cui è meglio se ve ne parlo domani.

 

* Perché è da mo’ che li conosco, visto che sono stati i miei primi editori (anche se adesso fanno finta di non ricordarsi più e manco mi rispondono quando gli invio dei bellissimi romanzi per la pubblicazione; ma vabbè, io mi ricordo sempre di loro).