
4 maggio 2018, Halmstad, Svezia. Nella prima semifinale dei Campionati Mondiali femminili a squadre di tennistavolo il Giappone batte per 3 a 0 la Corea. Una notizia che normalmente avrebbe destato attenzione soltanto negli addetti ai lavori e si sarebbe meritata solo un trafiletto in qualche rubrica dedicata agli sport minori. A rendere invece speciale e degna di nota questa piccola vicenda sportiva non è il risultato, prevedibile, dell’incontro ma la bellissima storia che sta dietro il nome del team sconfitto: non del nord, non del sud, ma semplicemente Corea. Ed è una storia che merita di essere raccontata perché, se già il fatto di trovarsi di fronte ad una squadra nazionale della Corea unita può suscitare sorpresa, sono il modo e le tempistiche in cui questa squadra è nata ad avere dell’incredibile.
La Corea del tennistavolo si era già presentata una volta con una sola squadra unita (Campionati mondiali di Chiba, in Giappone, 1991) e, sia detto per inciso, aveva pure clamorosamente vinto. Nell’occasione però, quella “nazionale” era stata preparata da lunghi mesi di difficili trattative tra i due paesi e si era iscritta alla manifestazione fin dall’inizio come un unico team. In ogni caso, nonostante il risultato sportivo, i difficili rapporti tra i due governi resero impossibile il ripetersi di un esperimento che sembrava destinato a rimanere episodico.
Questa volta quindi Corea del Nord e Corea del Sud si presentavano, come sempre, con due rappresentative distinte. Le due nazionali, entrambe competitive e con legittime ambizioni di medaglia, avevano agevolmente superato i rispettivi gironi eliminatorii. Il resto lo ha fatto il sorteggio, generando dall’urna, per i quarti di finale, l’accoppiamento più temuto (o più desiderato?): Corea del Nord vs. Corea del Sud.
Chi ha qualche consuetudine con lo sport non avrà difficoltà a capire la quantità di significati di cui può essere investita una sfida sportiva di questa portata. Qualcosa più di un derby: la possibilità di superare nel confronto non solo degli avversari sportivi ma dei nemici politici, di vincere una medaglia negandola al contempo all’odiato vicino. L’affermazione di un primato nazionale. Del resto in greco antico l’agone è la battaglia, e lo sport agonistico, in fondo, altro non è che una sana sublimazione della guerra.
Ma questo incontro, che fino a qualche mese fa sarebbe stato certamente ammantato di questa stucchevole retorica e si sarebbe per questo disputato col coltello tra i denti, non si è mai giocato per il semplice motivo che al momento di presentarsi in campo le atlete e i tecnici delle due squadre hanno comunicato agli arbitri la loro decisione: “Noi questo match non lo vogliamo giocare. Né vincitori né vinti. In semifinale vogliamo andarci insieme, come una sola squadra, con una sola bandiera, quella bianca con la Corea unita disegnata in blu”.
Hanno insomma scelto, con un gesto certo un po’ retorico ma in ogni caso rivoluzionario, di sublimare attraverso lo sport non la guerra ma la pace. E benché non vi fossero precedenti paragonabili e permettere a due squadre di eludere uno scontro a eliminazione diretta per avanzare insieme a braccetto implicasse una forzatura del regolamento e un’assoluta eccezione nella storia delle competizioni sportive, i vertici della Federazione Internazionale, colto il valore simbolico del gesto, non hanno avuto esitazione alcuna nell’accogliere all’unanimità la proposta coreana. Insomma, la successiva e già citata sconfitta col Giappone non toglie nulla a questa piccola grande storia, e le otto atlete coreane (quattro del Sud e quattro del Nord) sanno, in cuor loro, di portarsi a casa una medaglia di bronzo ben più pesante di quella d’argento conquistata dalle nipponiche.
Il tennistavolo, del resto, non è nuovo a storie di questo tipo, al punto che la vicenda qui raccontata può essere vista come il capitolo più recente di quella che, ormai quasi mezzo secolo fa, venne definita dai giornali di tutto il mondo “Diplomazia del ping pong”, termine coniato per celebrare lo storico incontro amichevole che ebbe luogo a Pechino tra le nazionali cinese e statunitense. Era il 1971 e prima di allora nessun cittadino americano aveva mai messo piede sul territorio della Repubblica Popolare dall’avvento al potere di Mao. L’evento, nato quasi per caso dall’idea di due giocatori, fu enormemente cavalcato a livello mediatico dalle diplomazie dei due paesi e portò per qualche mese alla ribalta il tennistavolo come veicolo simbolico di un momento di disgelo nel tesissimo panorama internazionale dell’epoca. All’episodio si fa cenno anche nel film “Forrest Gump” in cui il protagonista, nella finzione immaginato membro del team americano, riassume col proverbiale candore la portata di quell’incontro: “Qualcuno disse che la pace nel mondo era nelle nostre mani, ma io giocavo solo a ping pong.”
Anche le ragazze delle due nazionali coreane sono solo atlete professioniste che preparano per un’intera stagione una gara importante e, in fondo, vogliono solo giocare a ping pong. Ed è facile immaginare che il loro gesto sia stato suggerito, se non imposto da dirigenti, sportivi e non, molto più attenti a questioni politiche che di campo. Ma resta il fatto che su questo episodio ci sono le loro facce e sono facce che ci ricordano, per retorico che sia, che lo sport dovrebbe unire e non dividere e che spesso può essere veicolo di messaggi che vanno oltre il risultato di un match.
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