Il 5 aprile 1954 Lorenzo Pellegrini mise in atto un proposito che covava da settimane: profittando dell’allineamento nella data delle cifre 5-4-54, al quale attribuiva un propizio influsso cabalistico, egli avrebbe varcato per la prima volta la soglia d’un autosalone.
L’arrivo all’ItalMotor di via Emilia Ponente si svolse, inizialmente, così come Lorenzo si era ripromesso, sognando la scena fin nei dettagli, e sotto diverse angolazioni.
Indossava il completo gessato e la cravatta che gli aveva portato fortuna all’esame di Stato, giù a Roma. Fresco di barbiere, profumava discretamente di colonia, e aveva con sé una valigetta che conteneva le carte necessarie per accreditarsi come giornalista sportivo, regolarmente assunto nei ranghi del quotidiano “Stadio d’Italia”.
Non disperava, infatti, di riuscire a sbrigare la pratica in mezza mattinata, e intendeva qualificarsi a tutti i costi come persona degna di credito. Teneva, in particolar modo, a sembrare un uomo meritevole di pagare una Tau scoperta, color rosso corsa, in sessanta comode rate mensili, previo il versamento d’un anticipo di cinquecento lire.
Quella cifra, che rappresentava pur sempre un mese pieno di stipendio, era già disponibile in contanti nel portafogli che, obeso e asimmetrico, gonfiava il petto della giacca. Il malloppo pesava sul cuore di Lorenzo Pellegrini e, per tutto il tempo del viaggio in tram, gli aveva ricordato l’eccezionalità dell’occasione.
Non voleva, infatti, accontentarsi di una vetturetta. Meglio contrarre un impegno segreto per cinque anni, e farsi vedere in giro da subito, nel fiore della gioventù, a bordo della Tau. Quel rombante gioiello da seimilacinquecento lire sarebbe diventato il suo nuovo biglietto da visita, e non dubitava che le linee filanti dell’auto l’avrebbero aiutato a conoscere altre signorine da non sposare.
Nel posare la destra sulla maniglia dello scintillante portone di ItalMotor, considerò che, se tutto fosse andato per il verso giusto, avrebbe potuto fare ritorno a casa direttamente in macchina.
Il titolare dell’autosalone, Raimondo Solfan, era un uomo solido e sorridente, biondo e rubizzo in volto; nonostante l’abito rigato da gagà, a Lorenzo ricordò un birraio tirolese.
«Buongiorno, Pellegrini!» gli diede il benvenuto l’uomo, fregando le grosse mani l’una contro l’altra, come avesse freddo. «Mi dicevate al telefono che siete interessato a conoscere meglio l’ultima nata della grande famiglia, non è così?»
«Esattamente» confermò Lorenzo, sfoggiando la sua migliore versione d’una calma imperturbabile. «Credo di essere arrivato a un punto della carriera nel quale è assai opportuno, presentarsi agli appuntamenti di lavoro con una bella automobile.»
«Ma certo!» lo incoraggiò Solfan. «Una Tau scoperta garantisce un figurone in qualunque ambiente», e schioccò la lingua per la soddisfazione. Poi incurvò il collo e domandò un’ottava sotto: «Di cosa vi occupate, già?»
«Sono giornalista» fece presente Lorenzo, bilanciando la valigetta in mano. «Giornalista assunto allo Stadio d’Italia.»
«Bene» rispose Solfan, e rivolse un cenno che Lorenzo non capì a una delle impiegate dentro l’ufficio. «È importante, a meno che non vogliano acquistare un’auto in contanti, che i nostri clienti presentino garanzie…»
«Ho tutto qui» lo interruppe. «Contratto, busta paga, e riferimenti bancari.»
«Voi mi piacete, Pellegrini, perché siete un ottimista come me» approvò Solfan, piacevolmente sorpreso. «Vi piaceva color rosso corsa, non è così?»
«Già» gongolò Lorenzo.
«Avevo capito di avere di fronte un cliente deciso, così ve l’ho già fatta armare» mormorò ossequioso il venditore. Schioccò di nuovo la lingua e, con uno sguardo da incantatore di serpenti, sussurrò: «È già pronta, nel cortile sul retro. Così almeno può salirci sopra.»
«Posso… provarla?» esitò Lorenzo
La strada si srotolava innanzi a lui con una qualità nuova d’urgenza, adesso. La città intera sembrava ansiosa di mostrarsi al giovane pilota della Tau, così che gli isolati di via Emilia Ponente si susseguivano gli uni agli altri in uno sfarfallio indistinto. Dava la febbre, superare senza fatica le altre vetture, antiquate Balilla o nuove, pesanti, Fiat 850; ciclisti e motorettisti, poi, sembravano figurette incollate al terreno, e presto diventavano parti integranti del fondale inquadrato nel retrovisore.
Lorenzo traversò a quel modo, complici i semafori verdi, l’intero quartiere Santa Viola.
Non si sentiva più un uomo, ma una creatura mitologica, ormai inseparabile dal sedile in pelle reclinabile della Tau. Sfrecciando lungo via Saffi in piena metamorfosi, ne apprezzava sopra ogni altra cosa la docile risposta ai comandi, ben sintetizzata dalla maneggevolezza del volante in bachelite: bastava un movimento delicato per allargare la traiettoria in prossimità di ciclisti incautamente affiancati, o di macinini poco disposti a concedere il passo.
«Largo! Largo che passa il progresso!» li incoraggiava, scherzando, Solfan, seduto al posto del passeggero con un largo sorriso, quasi fosse rallegrato nel profondo da quella gita dimostrativa a rompicollo. Superati il portico quadrato del cinema Marconi e la via che conduceva al Velodromo, si concretizzò qualche centinaio di metri avanti a loro la sagoma d’un tram, che procedeva lento e raso al marciapiede. Ostacolava in parte la visione del cassero in mattoni rossi dell’antica Porta San Felice, così Lorenzo ritenne di portarsi per ragioni panoramiche al centro della carreggiata.
«Guida disinvolta, signore» notò Solfan, senza perdere il sorriso. «Siete il cliente ideale, per questo tipo di vettura».
«È un missile» balbettò, sovrappensiero, Lorenzo. «Il tachimetro segna i novanta, e ne ha ancora».
«Può spingersi a centodieci» confidò Solfan. «Ma il limite, qui in città, è di soli cinquanta chilometri orari».
Lorenzo lesse in quella notazione un delicato invito a rallentare. Così scese di giri, cambiò la marcia dalla quarta alla terza, e lasciò che la Tau proseguisse la sua corsa verso il cuore della città sull’abbrivio dell’accelerazione precedente. Neppure suo padre Paride Pellegrini, con tutto quello che aveva brigato, si era mai potuto sedere alla guida di una scheggia del genere.
«Cosa dite, caro signore?» domandò Solfan quando ormai avevano compiuto il giro della città. Esitò una frazione di secondo come un cattivo attore, quindi eruppe: «Ma cosa ve lo chiedo a fare! Guidate come fosse già vostra!»
Il pensiero dell’anticipo, e delle rate da pagare per cinque lunghi anni, tornò a visitare Lorenzo. Ma pensò alla faccia che avrebbe fatto Irene quando l’avrebbe visto spuntare a bordo di quel bolide. A quel punto avrebbe voluto raccomandare a Solfan di non lasciare a bordo nemmeno un pelucco, ma trovò che sarebbe stato sgarbato, così tacque.
«Insomma, la prendete?» andò al sodo il venditore, con un risentito anticipo di delusione nella voce.
«Guidare questa vettura è un piacere speciale» lo rassicurò Lorenzo, infilando l’ultima curva e, imboccato a velocità turistica il breve rettilineo che riconduceva all’ItalMotor, ribadì: «Oh, sì. Consideratela una decisione già presa, signor Solfan».
«Benissimo» osservò l’altro, cercando di contenere l’euforia che lo abitava. «Allora non resta che riportare la macchina da noi, per firmare le scartoffie e, se lo riterrete, fare un brindisi per festeggiare.»
«Potrò tenerla, dopo?» domandò Lorenzo, ingobbendo sul volante senza avvedersene, ma si accorse subito che l’uomo si burlava del suo timore. «Da subito, dico?» tentò di raddrizzare il tiro.
«Anche da subito» concesse il venditore, e rise. «Purché mi confessiate, da uomo a uomo, dove volete portarla in gita la prima volta.»
Il suo tono lubrico non piacque a Lorenzo, così si guardò bene dal confessare che voleva spronare la Tau sino a Trieste, per andare a trovare Irene, la ragazza della quale si era innamorato prima della guerra, e alla quale aveva scritto le sue lettere da soldato. Tanto quello non avrebbe capito.
«Avanti. So troppo bene che tutti i signori, appena restano soli con un pezzo di ragazza come questo, hanno in testa di portarla in un posto, o in quell’altro» insistette Solfan, e Lorenzo fu contento di avergli taciuto di Irene. Posteggiò senza rispondere di fronte all’autosalone, allora il venditore gonfiò le guance e, per un po’ emise un borbottio che ricordava una teiera.
«Lasciatemi indovinare…» tornò alla carica mentre la vettura si arrestava, e il motore smetteva di cantare. Colpì il gomito di Lorenzo e tentò: «Lago di Garda?»
«Credo che, per prima cosa, ci andrò a Rimini» inventò lui per tagliare corto.
«Ecco!» esclamò Solfan, pienamente soddisfatto. «Cosa vi dicevo?»
«Voi credevate sul Lago di Garda» notò Lorenzo.
«Lo sapevo, io, che c’entrava l’acqua» assicurò il venditore, immune ad ogni contestazione. «E, dove c’è l’acqua, c’è sempre di mezzo una donna. Dite un po’ se mi sbaglio.»
Ormai Lorenzo era in suo potere, così annuì, simulando un certo dispiacere per essere stato scoperto. Sostenne di avere una fidanzata a Rimini solo per compiacere il venditore, e per un po’ andò avanti a parlargli di questa ragazza immaginaria senza scollarsi dal posto di guida, ormai cristallizzato nella sua nuova posa da homo automobilisticus.