Mesh, accanto al letto, stringeva con forza la sua mano. Gli occhi rossi, era completamente assorbita dal suo dolore. Arwath la guardò negli occhi. Lui invece, nonostante la smorfia di dolore che gli increspava labbra e fronte, sorrideva.
“Ti racconto una storia che non sa nessuno” disse Arwath, la voce nulla più di un sussurro roco. “Sai che fui trovato da una compagnia di mercenari in un villaggio distrutto, unico sopravvissuto della mia gente.” Mesh annuì piano.
Arwath deglutì quel po’ di saliva che gli restava. “Nessuno sa che a salvarmi fu il fabbro, un tizio taciturno, sempre scorbutico con noi bambini. Quel giorno si mise tra me e i soldati, nella sua bottega. Ricordo la sua schiena davanti a me, ricordo l’urlo delle spade, l’odore del sangue, e le sue braccia possenti che mulinavano in aria. E poi i gemiti, quando lo colpirono. Una, due, cento volte. Cadde a un nulla dal tavolaccio sotto il quale ero nascosto io, tra blocchi di acciaio e spade non finite. Mi guardò e i suoi occhi erano pieni di un desiderio selvaggio di vita. ‘Vivi, ama, ridi’ mi disse. Nient’altro. Poi un palmo di acciaio rosso gli spuntò dal petto. Cadde a terra. Io mi rintanai in fondo alla parete, e restai lì, immobile, in compagnia del suo cadavere, fino a quando non mi trovarono.”
Arwath tacque. L’aria sembrava non volerne più sapere di entrare nei suoi polmoni, ogni respiro era una fatica indicibile.
“Da allora ho vissuto e ho amato ogni giorno della mia vita. E ho riso, Mesh, anche di fronte alla morte, soprattutto di fronte alla morte.” Le sue labbra rinsecchite si aprirono in un sorriso dolente e bellissimo, un sorriso che sapeva di vita. Mesh non poté fare a meno di sentirsene contagiata, e tra le lacrime rise anche lei.
“Adesso lo farai tu per me, Mesh. Vivrai, amerai, riderai. Lo dobbiamo a quell’uomo che mi salvò, lo capisci?”
Mesh annuì, convinta.
Ogni cosa intorno ad Arwath si fece più buia, mentre l’aria sembrava sempre più rarefatta. La morte dissolse piano ogni cosa, tranne una: il sorriso sereno sulle sue labbra.