Le cose che abbiamo in comune sono 4850, secondoun calcolo leggermente approssimativo che feci un po’ di tempo fa, duranteun travagliato rapporto sentimentale. Seguiva un elenco, delle suddettecose in comune, perlomeno delle più evidenti. In realtà, facendoun ulteriore rapidissimo calcolo, delle 4850 citai solo 32 voci, e a quantopare nemmeno troppo convincenti, perché la destinataria di tantearitmetiche attenzioni mi lasciò ben prima della seconda strofa (inun’intervista recentemente pubblicata, la ragazza dichiara di essere statacostretta ad abbandonare il Silvestri perché “non ne potevopiù di trovarmelo appresso che mi spiava, prendeva appunti, guardavatra i miei dischi, sempre co’ ‘sta cazzo di calcolatrice elettronica inmano!” N.d.R.). Effettivamente, ripensadonci, immagino che avrei potutotrovare argomentazioni più forti del fatto di avere lo stesso numerodi gambe, di braccia, di orecchie, che sono cose che poi ho scoperto diavere in comune anche con altre ragazze (beh, ho avuto anche un po’ culo).E’ che io sono fatto così, mi entusiasmo per un nonnulla, e mi sembravanotutti segni prodigiosi di un equivocabile destino di coppia perfetta. Piùprecisamente, credo di avere sempre avuto questo problema, di apprezzare,cioè, solo i punti di contatto, le armonie, le coincidenze, senzaquasi accorgermi delle differenze. Anche da piccolo, ricordo, quando micapitava sotto mano una Settimana enigmistica, avevo delle difficoltà.A quell’epoca riuscivo a fare ben poco, oltre a leggere le barzellette eunire i puntini della “Pista cifrata” (adesso invece riesco anchea risolvere quello in cui devi scoprire nel disegno gli oggetti nascosti.Fichissimo!). Però mi ostinavo a provare quello tremendo, il piùdifficile e assurdo di tutti: “Aguzzate la vista”. Lì unamente perversa e criminale si diverte a mostrarti due disegni perfettamenteidentici, millantando la presenza di sette piccoli particolari diversi inuno di essi. Si tratta ovviamente di uno stupido scherzo, perchéi due disegni sono sempre palesemente e totalmente identici. Ciònon di meno la continua reiterazione dello scherzo e l’assurda convinzionedi alcuni di trovare effettivamente le sette differenze (menti deboli efacili alla suggestione, pensavo) cominciò presto a minare la miafiducia in me stesso, insinuando pericolosi dubbi nella mia coscienza. Adesempio cominciai a pensare che forse aveva ragione mia madre quando misfilava la gonna piangendo e farneticando di vaghe differenze che avreidovuto capire nell’abbigliamento, o mio padre quando si ostinava a farminotare la diversità tra i miei voti scolastici e quelli dei mieicompagni (che invece erano uguali, non foss’altro che per quel piccolissimosegno “-” davanti). Oppure cominciai a credere che fosse verala storia dei semafori, che cioè, non fossero poi tutti uguali, masi dovesse effettivamente distinguere, come mi dicevano, tra quelli rossie quelli verdi. Questo pensiero in particolare, ricordo, mi squarciòla mente un giorno che ero ricoverato in ospedale. Ci ero finito perchéin quel periodo non vedevo le porte. Cioè, non riuscivo a notarealcuna differenza sui muri esterni degli edifici, così la gente micompariva e scompariva continuamente accanto, mentre io davo delle grancraniate. Fu quel giorno che capii e che mi arresi. Io che ero sempre statocontro ogni discriminazione, compresi che non si può vivere in questomondo senza discriminare continuamente. Fu uno shock, lo confesso, ma miridette la vita. Scesi di corsa le scale, ancora in vestaglia, ricordo,e picchiai subito un lavavetri di Bratislava, certo Miroslav, per testimoniarela mia vittoriosa scoperta. Siccome ero ancora alle prime armi con la discriminazione,non notai, tra le piccole differenze, il particolare dell’altezza del lavavetri:due metri e undici centimetri. Ma più tardi, di nuovo in ospedale,e per parecchi giorni ancora, ebbi tempo e modo di ragionare approfonditamente,e da allora sono un uomo nuovo. Adesso non mi riconoscereste (soprattuttograzie all’incontro con Miroslav). Ora le vedo anch’io le differenze, ele segno, perché sono sempre stato un tipo preciso. Ancora non netrovo tante come quando annotavo le affinità, ma ci sto lavorando.Ogni tanto ripenso a quel tempo e a quella vita, ingenua e infantile, esorrido (con i denti rimasti, voglio dire). Ero così cieco. Figurateviche all’epoca non credevo che fossero nemmeno possibili le guerre tra ipopoli, perché non pensavo potessero bastare differenze come lo stareda una parte e dall’altra di un confine, o il credere in un dio o in unaltro. Per dire la stupidità, a volte.


Daniele Silvestri


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Smemoranda 1997


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