Un pomeriggio in un vecchio caffè di Buenos Aires guardando piovere da dietro le vetrate. “Beviamo qualcosa di forte” propongo a Nicola mentre ci sediamo, “Per esempio, una ginebra.” E mentre aspetto che ci servano da bere, comincio a raccontare che, quando avevo quindici anni, abitavo da queste parti, proprio sopra l’incrocio tra avenida Córdoba e calle San Martín, al confine con il Bajo, il quartiere del porto.
Arriva il cameriere con la ginebra. Alziamo i nostri bicchierini. “Brindiamo ai tuoi quindici anni” suggerisce Nicola.
Non so se davvero ho voglia di farlo. “Se tu mi avessi conosciuta a quell’epoca, mi avresti trovato bruttina” gli spiego, “con spessi occhiali da miope e i capelli tirati all’indietro e fermati da un cerchietto imbottito, come piaceva a mia madre. Goffa come ogni adolescente, tanto più che mia madre mi infagottava in pesanti scamiciati di lana che lei stessa tagliava e cuciva per me: vestitoni informi da befana, troppo lunghi, almeno sei o sette centimetri più lunghi rispetto a quelli delle ragazzine della mia età. Roba da vecchia, insomma. Vietati i bluejeans, che mia madre definiva dozzinali; e così pure le minigonne… Ma la cosa che detestavo di più era il cappotto: pesante, “di cammello”, e già questo me lo rendeva orribile, come se sentissi le gobbe gonfiarsi sulle mie spalle. Un tempo era appartenuto a mia madre: lei l’aveva adattato a me per le sue manie di risparmio, e poi l’aveva fatto tingere di bordò, perché così sarebbe stato meno sporchevole; col sottinteso che io ero una ‘sciattona’ – questa era una parola che le piaceva ripetere – perché, a sentir lei, non stavo mai attenta a dove mi sedevo e perciò mi sporcavo facilmente. Un colore semplicemente orribile, tanto più che non si intonava con la mia carnagione, anzi accentuava malignamente il biancore del mio viso… Figurati che l’addetto alla distribuzione libri della Biblioteca Nacional, dove andavo di pomeriggio a rintanarmi per sfuggire ai tè delle cinque di mia madre, mi aveva soprannominato “Biancaneve”, dal tanto pallida che ero a quell’età…”
“Allora brindiamo alla fine dell’epoca dei cappotti bordò” propone Nicola di nuovo.
“Ah, che quel ‘coso’ fece una brutta fine, puoi starne sicuro. Successe una sera che mia madre andò a sentire non so quale recital al Teatro Colón. Restava inteso che avrei cenato in camera mia e l’avrei attesa studiando. Ma già mentre la salutavo, mi venne l’idea di uscire anch’io: ti giuro che non avevo premeditato quella piccola fuga, fu una tentazione improvvisa. E in fondo che c’era di male? Avrei fatto un giretto nel Bajo, che normalmente mi era precluso: mia madre sosteneva che era un postaccio, sporco, non adatto a ragazzine della mia età. Ragionai che entro un’ora al massimo sarei stata di ritorno e mia madre manco se ne sarebbe accorta… Detto fatto, mi infilai il cappotto bordò e in un attimo ero già per le scale. Passai in punta di piedi davanti alla guardiola dove vigilava la portinaia, sempre pronta al pettegolezzo e a inalberare un sorriso sospettoso da dietro i suoi fotoromanzi. Per fortuna, però, quella sera stava ai fornelli e non mi vide.”
Il cameriere a cui ho fatto un cenno è stato svelto a capire e a portarci un altro giro di ginebra. Ridiamo. Nicola suggerisce un brindisi alla mia fuga. Dei vecchi in fondo al bar ci guardano bere e alzano anch’essi i loro bicchieri, come se volessero farci un augurio, in quel linguaggio – quello dei bevitori – che non ha bisogno di traduzioni.
“Fuori faceva un freddo barbìno: folate di un vento gelido che, quando colpivano in faccia, sembravano smeriglio. Mi buttai per le strade strette che scendevano verso il porto, penetrando in quella vecchia zona di baretti equivoci affollati di marinai e prostitute. Bevvi un submarino in un locale soffuso di luci azzurre dove un marinaio polacco, biondo e leggermente alticcio, mi attaccò un bottone che non la finiva più. Quando finalmente mi incamminai verso casa, sentii suonare le undici. Proprio tardi: se mia madre fosse tornata all’improvviso… Cominciai a prefigurarmi rimproveri apocalittici: sicuri come il destino, come una legge di natura, come una mela che cade verso il basso, un gas che si solleva… E forse fu per colpa di questo pensiero se non mi accorsi subito che qualcuno mi seguiva. Camminavo veloce, calle San Martín mi pareva più buia del solito: sul marciapiedi piastrellato non potevo evitare che i miei passi rimbombassero. Avvertivo una minaccia nell’aria, come un confuso presentimento. Ma già davanti a me vedevo l’alta palma della chiesa di Santa Catalina: ero praticamente arrivata… Fu allora che l’uomo che mi aveva seguito mi affiancò. Finsi indifferenza, cercando di non guardarlo, desiderando con tutte le forze che succedesse qualcosa capace di farlo scomparire. Mi parve all’improvviso che mi urtasse tagliandomi la strada. Non so, non capii subito cosa stava succedendo: ricordo vagamente i movimenti furiosi del suo corpo che m’abbracciava lottando, dandomi strattoni, mandandomi a sbattere dolorosamente sul marciapiedi. Alla fine sentii l’uomo scappare via. Non gridai neppure: fino alla radice della lingua, la gola mi faceva male, quasi paralizzata…”
“E allora?” chiede Nicola.
Mi diverte il fatto che questa vecchia storia lo interessi. “Mi rialzai da terra” continuo, “È passata, mi dissi con sollievo. Non provavo un dolore vero e proprio, ma sentivo uno strano calore crescermi nella spalla; avevo le braccia intorpidite, come se sentissi cordicelle che mi tiravano le dita, qualcosa che somigliava solo vagamente al dolore. Camminai come una sonnambula fino al portone. Ricordo che alla portinaia farfugliai: “Mi hanno rubato la borsetta”. Rammento anche che stupidamente controllai con un’occhiata complessiva il cappotto: se nella caduta s’era rovinato, l’avrei sentita mia madre. Sì, lo so, era sciocco, ma fu quello l’unico problema a cui pensai. Comunque non pareva avesse subito danni… C’era una panca nell’atrio. La portinaia mi disse: “Siediti, querida, prendi fiato, ti faccio un caffè”. Le risposi che non si preoccupasse: desiderai dirglielo con voce convincente e sospirai credendo di essere in procinto di addormentarmi con quel dolore che all’improvviso cominciò a pinzarmi acutamente la spalla. Cercai di levarmi il cappotto che pareva diventato un peso insopportabile, mi sforzai di guardare all’indietro, allungai la mano verso la scapola sinistra, percepii sotto le dita uno squarcio insieme con la sensazione di qualcosa di appiccicoso. Sangue… Tirai un lungo respiro che mi parve lacerare i polmoni e svenni.”
“E poi?”
“Evidentemente lo scippatore, mentre mi tranciava la tracolla della borsa con un coltello, mi aveva colpito alla spalla, ma la ferita per fortuna risultò superficiale grazie allo spessore del famoso cappotto bordò. Per mia madre naturalmente fu l’occasione di una solfa infinita sui pericoli a cui una ragazza va incontro quando disubbidisce uscendo di sera da sola. Quanto al cappotto, fu mandato in lavanderia: il colore bordò impedì che si vedessero le tracce della macchia di sangue; il taglio fu ricucito e il rammendo non si notava neppure nel pelo folto. Perciò mia madre insistette che io continuassi a portarlo. A me però, ogni volta che l’indossavo, faceva orrore e m’impuntai: non lo volevo neppure vedere…” Mi tengo per me il fatto che a lungo, per molte notti, mi bastò chiudere gli occhi per rivivere tutta la scena: il buio di calle San Martín, il profilo dell’uomo, l’odore vinoso del suo fiato, il colpo alla spalla. Allora, ripensandoci, sentivo un vuoto allo stomaco, ma non si trattava di paura. No, nel silenzio della notte la lotta brutale di quei nostri due corpi bui mi pareva componesse una strana danza: io bianca come la neve, l’uomo più scuro dell’ombra; e, in mezzo, attraverso il cappotto color del sangue, la ferita sopra la spalla era una grande bocca aperta.
“Alla tua fortuna!” dice Nicola.
“Salute” rispondo; e, nonostante non creda alla fortuna, alzo il bicchiere.