I primi giorni Ernesto non usciva di casa, come un malato. Andavo a trovarlo, a volte carico di doni e altre a mani vuote, e lui aveva sempre questi occhi rossi, resi lucidi dal dispiacere. Guardava il Grundig senza spostarsi dal letto, il mio amico, fin dalle prime ore del mattino. Capitava che scoppiasse a piangere senza preavviso nel bel mezzo di un quiz, o di una replica stantìa del tenente Colombo. Allora si copriva il volto con le mani, oppure lo nascondeva contro il cuscino, e tra i singhiozzi levava alti e rabbiosi i suoi lamenti. Ce l’aveva con Paola, la ragazza che fino a poche settimane prima era deciso a sposare. Lei era andata a letto con un altro, e poiché era una ragazza che credeva al valore dell’onestà, si era sentita in dovere di raccontarlo al mio amico.
Mordeva i cuscini, Ernesto. Ruggiva. A non sapere che la sua era una malattia da cui, col tempo, guarivano quasi tutti, ci sarebbe stato da disperarsi insieme a lui. Cercavo di fargli forza, invece, ché non mi morisse di consunzione ad appena ventisette anni.
Umiliato e scarico come si sentiva, costretto a vivere solo nel piccolo appartamento che aveva affittato insieme a Paola, un bel giorno Ernesto s’era messo in testa che la nostra città era troppo piccola per tutti e due.
“Quella donna è una sacrilega” sosteneva il mio amico. “Non voglio trovarmi nei paraggi quando gli Dei la puniranno”.
Per qualche tempo Ernesto si fece vedere in giro rabbioso, i capelli in disordine, un paio d’anelli agganciati al sopracciglio.
Il venerdì sera faceva la spola tra i bar del Pratello trascinandosi dietro un cane stupido e feroce cui aveva dato nome Marlon. Era un bull terrier con gli occhi piccoli come spilli e, in compagnia di quel mostro, il mio amico dondolava sotto i portici. Perdeva tempo coi punkabbestia, andava in cerca di sostanze pregiate.
Era sempre stato un ragazzo giudizioso, Ernesto, e i più apprensivi tra i conoscenti, a vederlo conciato a quel modo, diffondevano voci che lo vedevano candidato a combinare, da un momento all’altro, qualcosa di grosso. Forse, addirittura, uno sproposito.
In realtà, se appena non ti facevi prendere dalle ansie, lo capivi che stava cominciando a recuperare la stima in se stesso.
“Che se la prenda pure chi vuole, quella disgrazia di donna” borbottava offuscato. A lui, davvero, di Paola non importava più: adesso sentiva con forza – questa virtù che non manca ai pazzi – che la sua vita doveva trovare un significato. In città, secondo il suo punto di vista, le cose prendevano senza preavviso pieghe troppo insensate.
Fu nell’abbaglio di un ragionamento del genere, io credo, che il mio amico decise di spedire il suo curriculum ai professionisti della cooperazione internazionale. Tastava il terreno in cerca d’un lavoro che lo portasse il più lontano possibile da casa.
Un pomeriggio di settembre incontrai Ernesto sotto il portico basso di via san Felice, a metà strada tra il bowling e l’ospedale militare. Al collo portava una sciarpa rossoblu dei Forever Ultras, e aveva tutta l’aria di essere andato a letto molto tardi. Nonostante il suo viso fosse nascosto per metà dalle enormi lenti degli occhiali da mosca, sembrava felice di vedermi.
Ci stavamo ancora abbracciando quando mi annunciò che oramai la nazione doveva considerarlo a tutti gli effetti un uomo in prestito. Nel giro di poco tempo, forse già alla fine del mese, si sarebbe trasferito in Mozambico. “L’Organizzazione per la difesa della gioventù” disse concitato. “Mi hanno scritto ieri. Hanno bisogno di me già dall’inizio del mese prossimo”.
“Cosa mi dici” riuscii a mormorare. “Così parti sul serio”.
“Se Dio vuole” disse Ernesto “è quasi fatta”.
“Ma dove andrai, esattamente?”, domandai. All’improvviso mi sentivo dispiaciuto, all’idea di saperlo lontano. Dispiaciuto e anche preoccupato, un poco.“In Mozambico dove? Nella capitale?”
“Macché”, tagliò corto Ernesto. “Lavorerò a Cabo Delgado, un posticino tranquillo sulla costa dell’Oceano Indiano. Niente male, vero?”
“Già”, dissi io stringendomi nelle spalle. Sentivo che avrei dovuto fargli una quantità di domande, ma non volevo rovinare quel buon momento, così le tenni per me. “Come fa a essere male, la costa dell’Oceano Indiano?”.
“Ma infatti”, disse lui. “È uno dei paesi più poveri del mondo, il Mozambico, ma io starò da papa”. Gongolava di gioia. Era strano vederlo così dopo i mesi bui. “Questi signori dell’Organizzazione per la difesa della gioventù si occupano dei ragazzi di strada”, riprese. “Li accolgono e cercano di dare loro una seconda possibilità”.
“Ecco perché ti hanno voluto subito con loro”. Come battuta era fiacca, ma il mio amico si sbellicò. Era davvero in gran forma.
“Ho preso la mia decisione soltanto la notte scorsa” aggiunse con un sorriso enigmatico “dopo una serie da inchiesta di Biancosarti”.
“Biancosarti?” Ero quasi indignato. “Ma dove? Al pub?”
“Macché” disse lui. “Mi sono cacciato in un bar di ultima, un postaccio che resta aperto fino a tardi, dietro il mercato di via Zamenhof. Avevo bisogno di pensare. Marlon l’ho legato fuori, al palo d’una fermata d’autobus, perché il barista dentro non ce lo voleva. Non aveva mai visto un bull terrier, e mentre cercavo di trovare un buon motivo per restare in Italia, il barista mi distraeva con le sue domande. Dal suo punto di vista, forse, voleva tenermi compagnia. Chiedeva perché Marlon ha la testa così rotonda – come lo sapessi – e se per caso non sarebbe un cane da combattimento. Lui intanto faceva il diavolo a quattro, credimi, legato davanti la vetrina. Così a un certo punto ho ordinato un altro Biancosarti – il terzo, il quarto – e sono uscito fuori per vedere di calmarlo”.
“Poverino”, dissi io. “Si sentiva escluso”.
“Poverino un corno” disse Ernesto. “Come mi ha visto a portata” disse mimando con la mano il gesto della tagliola “lo stronzo non si è lasciato sfuggire l’occasione”.
“Non ci posso credere” dissi scuotendo la testa. “Vedere”.
“Questa città sta diventando troppo pericolosa” disse Ernesto mentre si chinava a sollevare il bordo del pantalone destro fin sotto al ginocchio. “Pure il cane mi si rivolta contro”. Aveva un gran cerotto bianco, incollato sull’esterno del polpaccio, e sotto la superficie porosa intuivi il rilievo del filo sulla pelle lacerata. “Sono quasi svenuto per il dolore” riprese. “Non sapevo più se chiamare il pronto soccorso o l’accalappiacani”.
“Stronzo ingrato” dissi. “Non si è mai ambientato del tutto, quel botolo”.
“È stato un bene, alla fine”, disse lui mentre riabbassava il lembo del pantalone a coprire il cerotto. “Mi ha aiutato a prendere la mia decisione. Lo lascio a te, questo cavolo di paese” mormorò Ernesto soddisfatto. “Mi mancheranno solo le donne degli altri”, aggiunse lanciandosi uno sguardo dietro le spalle. A cinquanta passi da noi, sotto l’infilata degli archi, vedevi sopraggiungere questa studentessa ventenne, una cascata di riccioli castani che incorniciavano il volto gentile. “Quella fatina lì” sussurrò il mio amico “è da mezz’ora, che l’ho notata. La incrocio senza sosta, oggi pomeriggio. Però ormai ho deciso. Parto. È tempo che mi prenda le mie responsabilità”.
La fatina passò oltre, senza accelerare il passo né niente. Camminava leggera, come dentro un sogno, e in quel sogno andava verso le Due Torri.
“A me non la racconti”, dissi al mio amico per prenderlo in giro “Andrà a finire che lavorerai sì e no due ore al giorno, e il resto del tempo te ne stai in spiaggia”.
“Per il momento” sorrise Ernesto “mi basta cambiare aria. Se solo mia madre riuscisse a non piangere quando le darò la notizia, sarebbe tutto perfetto”.
“Sono contento per te, fratello. Stai in occhio, però”, gli dissi prima d’abbracciarlo come fosse già sulla scaletta dell’aereo. “Devono essere regioni ancora rustiche”.
“Tranquillo” mi disse. “Sarò prudente persino in sogno”.
Quel pomeriggio in via San Felice, Ernesto sembrava l’entusiasmo in persona. Era come fosse da sempre il suo più grande desiderio, ottenere un contratto di ventiquattro mesi con l’Organizzazione per difesa della gioventù. E Cabo Delgado, nelle sue parole, era semplicemente il paradiso. “L’anno scorso, di questi tempi pensavo di sposarmi” soffiò fuori alla fine. Adesso che aveva preso la sua decisione, ne poteva parlare come si parla del passato. “Mi hanno colpito” sorrise “ma non affondo per così poco. Ho davanti le stagioni migliori” disse puntando l’indice verso terra. “Io me la gioco, questa partita”.
Ci salutammo baciandoci sulle guance nella penombra del portico. Eravamo commossi come due vecchie, il mio amico e io, e paurosi, cercando di fissare nella mente il volto dell’altro, interrogavamo il significato di tutti i cambiamenti che ci avrebbero riguardato durante le stagioni a venire.