Già ai tempi del liceo, Filiberto Quidam era diverso da tutti noi: odiava lo sport, non sembrava interessato alle ragazze, e disprezzava senza distinzione rock, pop e dance commerciale. 
Studiava, lui. Studiava e basta, senza bisogno che nessuno lo legasse alla sedia.
Noi ci esaltavamo per il finale di campionato e trepidavamo per uno sguardo scambiato con una bellezza della classe di fronte, mentre il Quidam triangolava imperturbabile fra casa, scuola e la biblioteca di quartiere. 
Naturalmente aveva ottimi voti in tutte le materie, tranne educazione fisica: affrontava col muso lungo le partite di pallavolo cui ci costringeva il professore e, per vincere la noia, sfogliava sottorete una biografia di Spinoza.
L’estate della maturità il Quidam risolse il Paradosso di Neijma-Kühn, un enigma scacchistico ritenuto fin lì senza soluzione: il suo nome finì sui giornali, e i genitori si convinsero a iscriverlo a un’università per ragazzi geniali, dove si studiavano archeologia, fisica quantistica e nove lingue morte fra cui il cartaginese.
Scomparve per cinque anni.

Ormai me l’immaginavo professore, oppure alla NASA, invece ieri rientro a casa e mia sorella strilla: “Corri! C’è il Quidam in televisione!”
Mi scapicollo, e lei m’indica un buffone sul palco di uno show per nuovi talenti. Guardo meglio e lo riconosco: è proprio Filiberto, ingrassato venti chili e fasciato da un assurdo completo in pelle, i capelli tagliati corti e platinati. Sta tentando di cantare un vecchio pezzo di Fiorella Mannoia, mentre il pubblico in studio ride e fischia.
“Ma cosa gli è successo?” domanda mia sorella. “Me lo ricordavo diverso”.
“Vorrei tanto saperlo anch’io” mormoro. “Dev’essere impazzito”,
“Come si càààmbia per non morìììre” Filiberto Quidam stona di brutto il ritornello. “Come si càààmbia per amòòòre”.
Allora capisco che nella sua monotona esistenza di ragazzo geniale dev’essere capitato qualcosa di allegro e inatteso.


Enrico Brizzi


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