Con la mente, con calma, ragionando, Carlino sa che è un normale deodorante antiallergico, questo flaconcino di pvc bianco e azzurro che sta comprando in questa farmacia, oggi.
Ma quella che sente arrivare nel cuore è una ventata violenta di lavanda artificiale che lo sbatte indietro di parecchi anni. Facciamo diciannove. Diciannove anni fa, Carlino ne aveva quindici.
L’età delle maglie di filo comprate dalla mamma, che mettevano in evidenza le ossa (il pallino del gomito) e strangolavano le ascelle. Colori pastello che davano il voltastomaco alle ragazze e alta percentuale di fibra sintetica: anche per questa componente tessile, un incubo ossessionava Carlino, puzzare.
Esistevano i deodoranti, egli ne faceva un uso disperato. Non erano i deodoranti di adesso, prodotti dalle case farmaceutiche, testati senza nuocere agli animali e all’ozono.
All’epoca l’ozono non si sapeva cosa fosse, e gli animali non interessavano a nessuno. Il deodorante era un ritrovato spiritualmente più vicino al detersivo, una cosa che più chimica era e meglio sembrava servire allo scopo, uno scarto della produzione di qualcos’altro, propellenti, esplosivi, chissà.
Come oggetto, il deodorante assomigliava a un insetticida. Una grossa bombola di metallo, pesante circa mezzo chilo, alta più di quaranta centimetri compreso il tappo, costituito da un grosso cilindro di plastica rigida. Lo spray produceva un getto continuo gassoso-liquido, freddo e violentissimo. La marca più diffusa era Bac e non aveva troppi concorrenti sugli scaffali delle drogherie.
I test del Bac erano probabilmente condotti su condannati a morte. Deodorarsi col Bac e negarne l’uso era impensabile. La nebulosa generata intorno al corpo non si attenuava con i minuti, né si poteva sperare che gli astanti la associassero alla freschezza di una cute giovane appena lavata.
Un lancinante sentore di lavanda sintetica, estorta in laboratorio da tecnici senza scrupoli a molecole che la natura aveva assemblato in altre forme, trapassava imperioso i loden e i giubbotti e ristagnava anche all’aperto, smascherando l’utente nei tristi ammassamenti nebbiosi e mattutini davanti ai cancelli della scuola.
Ogni giorno, nelle convulse fasi della mattina presto, mentre dal bagno sentiva la madre che di là faceva rumori di prima colazione, dopo la veloce asciugatura del blocco collo-torso-ascelle Carlino guardava in alto. La bombola era in cima a un armadietto.
Carlino la fissava, fermo anche se era in ritardo, e rifletteva intensamente sull’inevitabilità come concetto astratto. Poi agiva, afferrava la bombola, esponeva le ascelle allo spruzzo macerante, una sventagliata gelida che spazzava i pochi peli come cespugli in un tornado mentre il bagno si riempiva di odore di treno disinfestato.
Carlino sperava che l’organismo reggesse a quella radiazione quotidiana. Si palpava sotto l’ascella alla ricerca di irritazioni, nodi, vesciche, temeva di passare alla storia della medicina come il primo uomo con un tumore al seno. Usciva di casa fuggendo dalla propria scia, tuffandosi negli odori d’auto e di freddo, incrociando adulti che gli mandavano sguardi contenenti disgusto tenerezza e il seguente commento: mettersi addosso un profumo così tossico e andarsene spensieratamente per il mondo è una fortuna che si ha solo a quindici anni.
Carlino entrava in classe, conscio di costituire il triste sole al centro di una galassia pestilenziale e sedeva tra i banchi in silenzio, con la faccia di uno che è da un’altra parte.
In fondo era contento. Gli sembrava impossibile che la vita potesse diventare più difficile di così.