Se c’è un delitto di cui può essere scagionata Franca Falcucci, esso riguarda certamente la mancata creazione del più bel giallo del secolo. L’autore possibile di quel tale capolavoro sono io stesso e, per scriverlo, avrei avuto bisogno di fruire di un pensionamento anticipato. Ho “maturato” tutti gli anni di insegnamento necessari, anzi ad essi ne ho aggiunti ben sei in sovrappiù, e tuttavia non mi sono messo “in quiescenza”, resto al mio posto di lavoro, continuo a non scrivere il giallo migliore di tutti. Però non è la Falcucci che mi ha trattenuto, non sono le sue gabbie composte di rugginosi codicilli e di inibenti postille a chiudermi nel mio protetto asilo di eterno statale. Giunto fin sulla soglia del desiato addio alla scuola, pronto a sedermi sereno alla scrivania con accanto il mio gatto (in memoria di Edgardo Poe che scriveva così) e un tazzone di “Lapsang Souchong” (nel ricordo dei té che richiamano i fantasmi, ma tuttavia nell’ignoranza del tipo e della marca a cui si attribuiscono tali poteri) io mi sono tratto indietro e ho rinunciato. Addio trame intricate e confuse (ma poi genialmente illuminate di provvida chiarezza conclusiva), addio protagonisti insospettabili, addio atroci comprimari, addio a te puranco, splendido genio del male, livido mattatore (se non è questo il caso di usare una simile parola…) nei trepidi teatri del Boulevard del delitto, addio tòpici poliziotti sorgenti dal limo delle vostre questure, addio sordide e tenere vecchie, irrinunciabili paraninfe di ogni omicida come si deve, addio patentate praticanti del prossenetismo criminale, addio! No, nessuno tesserà l’incomprensibile ordito di cui ho ben fisso in mente ogni filo, nessuno sistemerà lo strabiliante disegno complessivo, nessuno cucirà le parti con spietata cognizione della dimensione unitaria in cui esse si ricompongono, lo confesso ora la mia sopravvenuta inappetenza, evidenzio gli indiscutibili crolli delle mie radicate propensioni, chiarisco il senso della mia rinuncia. Converrà, tuttavia, che però si precisino anche i modi e i tempi secondo cui in me prese corpo questo abbandonato ma inebriante progetto, e, del pari, sarà necessario rendere almeno parzialmente edotti i mancati lettori delle ragioni per cui ad essi si sottrae un così fascinoso strumento di dilettevole accrescimento culturale. E si consenta, pertanto, con abile gioco retorico, di capovolgere i termini della questione: non dirò subito perché ho accantonato lâidea di scrivere il giallo dei gialli, ma farò prima intendere le ragioni che mi determinarono a formulare quel progetto, a vivere con quel segreto disegno per molti anni calato nel cuore. Mi prefigurai giallista, grandissimo giallista, fin dai miei anni più verdi, e per un atto d’amore. Ero un bambino molto piccolo, ma indubbiamente geniale, una mente già travolta (a tre anni) dalle ansie del trascendente e dai ragionati labirinti della logica. Naturalmente tacevo, come i saggi e come i sapienti, ma, scambiato per scemo (ai miei tempi la variegata gamma degli handicap era frettolosamente riassunta dai maestri con quell’unico termine, squallido e improprio) lui prestamente riaccompagnato a casa un certo primo ottobre e (benché avessi già sei anni) non potei frequentare la prima classe. Per la prudente e assennata condotta dei miei famigliari (simpaticamente neutri e dubbiosi, nel conflitto tra me e la scuola: sarà scemo lui o ingiusta lei?) mi fu concesso di fruire di un privato maestro, di un vero e proprio “aio”, come i figli dei signori dabbene del passato. Era, costui, uomo dotato di piacevolissimo e cordiale aspetto, di dolce carattere, dì raffinata e copiosa cultura. Studente in medicina, studente quasi da sempre, come si addiceva a un consapevole erede degli antichi clerici vagantes, eterni scolari, non toccava ancora i quarant’anni e poteva aver già sostenuto sei oppure sette esami, con effetti numerici trascurabili (tre diciotto, quattro ventuno) ma degni dello sprezzo con cui quello spirito libero guardava alle miserie del nostro mondo di onnipresenti calcolatori giudicanti. Egli leggeva e mangiava, spesso neppure alternando, nel furore conoscitivo da cui era pervaso, queste attività, nobili entrambe e del pari rimarchevoli. Inghiottiva consistenti pagnotte ripiene di pancetta (sempre quel pane, sempre quel companatico, come accade a tutti gli uomini meglio dediti a sondare la sostanza che a soffrire lâapparenza delle cose) e leggeva libri gialli. Anch’io (suo fedele discepolo) fui presto chiamato generosamente a dividere gli alimenti offerti dalla duplice mensa e, mentre trituravo una pagnotta simile in tutto (ma più minuta) a quella di cui si pasceva mio “aio”, compitavo, via via sempre più velocemente, centinaia e poi migliaia di bellissime storie poliziesche. Il nostro silenzio masticatorio ed enigmatico (ma gli enigmi dei nostri gialli poi si chiarivano, mentre il manducamento non desisteva mai) fu un giorno interrotto dalla voce del mio precettore, dolcissima ancora alla mia memoria, ma forse resa a quel tempo un poco roca dai filamenti di pancetta a lungo indugianti fra i suoi molari: “Orca, acc… sbrulp, squack, guarda tè, guarda un po’ qua… ” E, nel dir così, intanto mi porgeva una rivista benevolmente orrorifica, elegantemente avvolta in toni grigi e neri, come oggi un completo di Valentino, resa tenera e cupa da un titolo, “Crimen”, che olezzava di latino, sapeva un non che di proibito, rinviava ai delitti a sfondo sessuale di un professore classica. Da quel giorno, è appena il caso di farne menzione, non fui più lo stesso. Ora i gialli assumevano, come si sarebbe detto poi, “consistenza territoriale”. Contesse e furieri, ortolani e nababbi, meditabondi assassini covanti acrimonie decennali, poi sfociate nellâarsenico, o splendidi raptus spettacolari affidati (per l’esito) ad un coltello con lama finlandese… Ondeggiavano moilemente sulle acque color di onice di una elegante piscina del delitto, mentre mariti i gelosi e guardoni, o mogli bisbetiche, o fratelli scioccamente riusciti nella vita, o fanciulle insulsamente resistenti alle profferte di Barbablù sapienti e dabbene finivano squartati, mescolati alla calce del muro, saponificati con alchemica destrezza, fatti avvolgere da un sonno “provocato”, ma eterno e caritatevole come quelli finali e naturali. E crescevo in salute e in sapienza, diviso tra “Crimen”, la pancetta, i panini e i rari ma insostituibili consigli dell'”aio”… Finché un giorno chiesi al mio maestro, dopo sofferte e dubbiose veglie da cui era stato lungamente avvilito, quindi al volgere di una frase cruciale della mia esistenza: “Perché non a Bologna, perché mai qui?” Era il grande svincolo di una giovinezza finallora trascorsa meditatamente serena, era la domanda epocale che avrebbe deciso di una vita. Risponde il Precettore, con toni suadenti e sfilacciosi: “Delitti importanti qui? No, troppi casotti, troppe trattorie…” Ecco, era fatta. Noi, immersi nella doppia miseria del postribolo e del ristorante non avremmo mai meritato di riempire le pagine di “Crimen”, no, mentre un qualunque Abbiategrasso, uno sconosciuto Premilcuore, un remoto Casal di Trebbo avevano sempre un avido notaio, un farmacista venefico, un carabiniere che lasciava l’Arma per le armi, più concrete e rischiose, del delitto. Guardavo i fumosi caffè, le piazze piene di campanelli dove si parlava e parlava, le vie “proibite” con le persiane chiuse, spiavo i vetri fatti untuosi da brodi densissimi della mia città crapulone e innocente e pensavo a Landru, eroico e cavalleresco, misterioso e beffardo, turpe e poetico, insomma irrimediabilmente parigino. Sì, qualche consolatorio delitto, qua e là, si tentava o magari perfino si portava a termine, anche da noi. Ma cose pacchiane, al limite dell’improvvisato, e poi provincialissime, dio mio, da vergognarsi a rammentarle. “Appuntato di P.S. sgozza domestica a Porta Galliera. Lâomicida confessa e chiede perdono ai genitori della defunta”. Mai che potesse avere un po’ di rispetto per se stesso e per i suoi concittadini quellâappuntato… Cosa andava a chiedere perdono? È così che si fa un delitto? Ve lo immaginate l’assassino, aritmeticamente ineccepibile, di Dieci piccoli indiani, che domanda dieci mediocri perdoni ai parenti delle sue vittime? Proprio roba da Bologna, dicevo tra me, invidioso e tuttavia legato all’amata città, così ricca di pietanze e così povera di tragedie… Una sera, ero ormai giovinetto, lâ”aio” aveva debitamente interrotto gli studi e allevava maiali nel nativo Friuli, io rincasavo solo, nel buio della strada quando fui attratto da urla promettenti. Accorsi, ben deciso a lasciare che il delitto (specialmente se grave, drammatico, interessante) si compisse e io potessi fruire di uno spettacolo tanto atteso… Ma no, era un alterco tra innamorati e lui teneva una pistola (una pistoletta, quasi uno scacciacani), ben lontana da lei, che però strillava come se stessero per ucciderla davvero, ma poi, del resto, accorsero subito quelli che si impicciano di tutto e giù a disarmarlo di quell’arma inutile e puntata nel vuoto, priva senza dubbio di ogni credibile intenzione. Il giorno dopo il ridicolo fu aggiunto all’onta: “Ultimissime. Tutto sul tentato omicidio di Miss Porretta”. No, questo era davvero troppo. Tentato omicidio? Ma con quello scacciacani fendente l’aria io avevo corso più rischi di lei… e poi: ve lo immaginate Landru che si adopera per far fuori “Miss Porretta”? Echi di cronaca da radio locali, Telesanterno, da corsa stracittadina per celebrare la liberazione dei servi della gleba… Fu allora che votai la mia vita e il mio destino alla redenzione criminale della mia città. Priva di dignitosi assassini veri, come era, io le avrei regalato un “giallo” incredibile, stupendo, complicatissimo, molto elegante, tutto ambientato fra i suoi portici pigri e le sue piazzette da pensionati in crocicchio, e ogni luogo sarebbe apparso pervaso da aristocratiche e sinistre premonizioni. Intanto avevo vinto una cattedra, ero di ruolo, non restava che prepensionarmi e dopo mi sarei messo all’opera. E poi? La risposta è nelle tristi vicende dell’oggi. Il Bologna F.C. è, appunto, in C. Tutto, qui, è ancora più spento, più rassegnato che mai. Pensate ad un titolo come: “II grande giallista parla della sua città. In queste strade dall’apparenza tranquilla si tramano più omicidi che alla corte dei Borgia.” Già, ma poi questo titolo finirebbe a spalla con l’altro: “Arranca il Bologna che prende tre gol dalla Rondinella”. No, non si può, non serve. La Falcucci si tenga i soldi della sua liquidazione. Io resto qui, insegno, leggo… Delitti ne commette abbastanza lei… Ma, un momento, che cos’è questo Dramma universitario di Quentin Patrick n. 176 de “I libri gialli Mondadori” del 10 dicembre 1937? Un’università antica e famosa, delitti molto “accademici”, un’aria indiscutibilmente criminale e raffinata… “Egregio signor Ministro, voglia accettare con la presente, le mie dimissioni da professore associato…”