La storia deve cominciare nella camera in penombra di una lussuosa clinica, con la flebo di design, il pulsante ergonomico per l’infermiera che sembra miss Somalia, le tende immacolate, affacciate su alberi d’alto fusto. È ricoverata una signora, fine ed elegante, tra i 35 e i 40. Cala la sera e guarda la tv. Un volto noto recita le notizie e lei gli parla come se fosse presente: “Prima mi cercavi sempre, adesso che sono io ad aver bisogno, e guardami se non è vero che ho bisogno, ti fai negare al telefono”.
Più la giovane signora scruta il video parlante, più la realtà si circonfonde d’amarezza: “Ti ricordi come ci siamo conosciuti? Una giornalista squinzia del tuo tg era venuta nel mio palazzo, dove viveva il signor Carlo Peregalli, e avevo sentito che parlava di Giorno di ordinaria follia. No, non era possibile, di fronte al luogo comune non ci avevo visto più. Il signor Carlo, avevo spiegato, tutto era meno che un folle o un uomo ordinario. Il signor Carlo, il mio amico fraterno Carlo, aveva ereditato non dico una fortuna, ma una fabbrica di minuteria metallica dal nonno, e dal padre, e negli ultimi anni ha lottato con le banche e con le tasse per mantenerla in vita. Non ha ‘delocalizzato’, non ha chiesto contributi allo Stato, s’è venduto due ville per pagare gli stipendi, ha retto sin quando ha potuto, e poi m’ha invitato alla Pesciera, a mangiare frutti di mare e ostriche crude, come faceva sempre, quando aveva dei problemi anche sentimentali. Mio nonno era il commercialista del suo, mia madre e sua madre sono state amiche per una vita e anche noi da ragazzini siamo andati nella stessa scuola, lui era più grande di me, non so dire perché non ci siamo sposati, ma a volte va così come deve andare. ‘Matilde — mi ha detto — non mi resta che ammazzarmi, come hanno fatto in tanti, imprenditori e operai, commercianti e manager disoccupati. Ma mentre ci pensavo sai che cosa mi sono detto? Che forse hanno ragione i kamikaze. Boom, si ammazzano, e ammazzano il nemico. Ma questo nemico, questa crisi, che faccia ha? Chi è che mi fa chiudere?’
Avevo creduto di liquidarlo con una battuta: ‘E tu, che sei la quint’essenza dell’italiano intelligente, vorresti diventare un ‘crisikaze’?’
‘Cazzo, sì, ma con chi me la prendo?’, aveva domandato, finendo le ostriche’.”
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La tv trasmette. Suoni: parole che perdono senso, mentre la signora Matilde beve un sorso di liquore ambrato da una fiaschetta, di quelle che si usano per le gite in montagna. La nasconde sotto il cuscino: “Caro direttore — dice allo schermo ultrapiatto della clinica — non ho rivelato alla tua cronista che ero stata io a dare a Carlo, del tutto involontariamente, il suggerimento letale: “Chi non t’ha rinnovato il mutuo? La banca”.
“Razionale”, aveva risposto.
“Tu entri, e se proprio hai deciso di spararti, li metti tutti in fila, e diventi il ‘soffio’ della crisi, ‘Ka’ inspira, ‘Ze’ espira, il sacro tifone, il kamikaze, diventa il crisikaze, e uccide per primo il direttore, segue il vicedirettore e l’impiegato più stronzo…”
Mi ricordo che s’era messo a ridere forte, complimentandosi, e non m’ero allarmata, mentre insistevo per pagare il conto. Scherzavamo spesso con il macabro. E nemmeno io, vedendo Carlo con il suo orologio d’oro, l’abito su misura che levigava il fisico asciutto e scattante, che da ragazzo gli aveva fatto vincere le gare di Regolarità nel motociclismo, avrei potuto immaginare quella che i giornali hanno chiamato La strage degli innocenti impiegati, e Sette morti per un mutuo. Ma fosti tu, direttore, grazie alla mia testimonianza, a coniare il titolo che ha inciso: Krisikaze, strategia per un massacro.
Da allora la parola krisikaze, con la tua “k”, è entrata nel luogo comune. Prima in Italia, poi in Europa, poi nel mondo. Dieci giorni dopo la strage e il suicidio del mio amico, la seconda crisikaze (io preferisco la mia versione originale, con la “c”) fu una co.co.co di trentasette anni, due lauree, tre lingue parlate e scritte. Lavorava in una grande casa editrice e, al sesto “amico” degli amici che nonostante le rassicurazioni del sindacato bastardo e colluso le passava davanti nella graduatoria immaginaria delle assunzioni, perse la calma apparente. Andò a trovare la famiglia dopo tanti week end passati a lavorare come un somaro. Il padre era un maresciallo in pensione. Portò via la Beretta 7.62, con circa 60 proiettili. Il primo che ammazzò fu il direttore di un settimanale ridicolo. Il secondo, un ex sessantottino che faceva “l’uomo azienda” in un modo tale da far vomitare qualunque ex compagno delle antiche manifestazioni. Il terzo un opinionista che raramente si muoveva da casa, ma quel giorno, zac, sfiga.
Risparmiando le donne, Colombo Maria Assunta, mai assunta, eliminò, ferì e inseguì, iniziando la pulizia dai piani alti per arrivare ai piani più bassi, i più loschi, arrivisti, spregevoli e futuribili colleghi. All’ammezzato ingaggiò un conflitto a fuoco con le guardie giurate. Bilancio finale: 11 morti, compresa lei, sedici feriti, un infartuato, tre con le gambe rotte nella fuga. Non male, per essere una che aveva conquistato la lode in giurisprudenza con una tesi in diritto romano: si vis pacem, para bellum. Allora mi chiamasti per la prima volta in un talk show e io accettai.
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Il giorno dopo, venivo fermata per strada: “Brava, lei sì che gliene ha cantate quattro al ministro, è a loro che dovrebbero sparare”. Mi chiamavano le radio e i giornali: “ka” inspira, “ze” espira. Chi usava la parola follia, qualcuno giustizia, altri anarchia e i più avveduti “tempi oscuri”, nei mass media non si parlava d’altro, ma non capivano. Mentre in Francia, Belgio e Ucraina avvenivano stragi simili, fu con il terzo crisikaze italiano che il termine krisikaze, come dicevi tu, o crisikaze, come dico io, entrò nei vocabolari.
Prima di uscire con alcuni fucili da caccia e tutte le mazze da golf dalla casa ipotecata, Enzo Marelli, professore precario di quarantacinque anni, grecista, erede di una dinastia di docenti e saggisti, scrisse e inviò per mail una lunga “Epistola del krisikaze”. Sì, con la “k”. E diffuse il “Programma Selva”.
Riportate con qualche prolissità le statistiche sull’aumento dei suicidi e gli interventi dei vari ministri sul tema, il professore invocò il sostegno spirituale di “Peregalli Carlo, di anni quarantuno, e Maria Assunta Colombo, di trentasette”, chiamandoli gli alfieri della “nuova psico-lotta”. E scrisse quelle due righe che fanno tremare i potenti: “Chi comanda e non sa comandare ci ha spinto nella selva dei suicidi, ma non vi entreremo più da soli, ci porteremo dietro i ciechi, i sordi, i muti, e ovunque risuonerà il ruggito del dolore”.
L’allarme alla questura scattò molto dopo l’ingresso del grecista nella sede della Asl. “Spetasciò” con le mazze da golf il dirigente, che non voleva riconoscergli l’invalidità dopo un incidente d’auto, devastò il cranio della segretaria fancazzista e offensiva e di due impiegati nati stanchi, prima di asserragliarsi con i fucili tra i cadaveri. Non s’arrese, riuscì a ferire un carabiniere, poi impugnò un sovrapposto come clava e venne crivellato di colpi. Un giovane, con un iPad, aveva ripreso tutto, fu il video più cliccato di Facebook per due mesi.
Fu così che nacquero sia la Legione Selva, comandata da un ex neonazista, che s’era formato negli stadi, sia le Brigate Assunta, che raccoglieva i fuoriusciti (e diciamo pure, i fuori di testa) di alcuni centri sociali. Ogni rivendicazione cominciava con la lettera del professor Marelli. Cominciarono con azioni dimostrative, la più famosa quella di un gruppo di ragazze. Si misero sedute a cavalcioni sul Nuovo Pirellone, facendo temere un suicidio di massa, ma s’erano assicurate con alcune cime da montagna. All’arrivo del primo politico, un assessore ai trasporti, lo afferrarono lanciandosi tutte nel vuoto. E lo tennero là, con loro, al ventisettesimo piano, senza lasciarlo cadere, ma fingendo di farlo, finché non arrivarono i pompieri: “Volevamo mostrare almeno a uno della casta la vita sospesa del precario”, questa fu l’unica dichiarazione, al processo.
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Ogni volta che c’erano situazioni di questo genere, tu, in qualità di direttore e anchor man, m’invitavi. Sia perché avevo coniato la parola ormai diventata di dominio pubblico, sia perché a trentasei anni, erede di una famiglia importante, divorziata, sono una donna piacevole. O forse lo ero, perché come sai, e fingi di non sapere, sono in clinica, per alcuni guai seri alla pelle: è come se qualche cosa mi macchiasse, mi ferisse, e così mi sono andata trasformando. A parte coprire con delle lenzuola gli specchi della mia grande casa, a parte venire in clinica per lavare il sangue e chissà che cos’altro, mi resta poco da fare. Questo poco era cercare di parlare della mia rara malattia, perché le malattie rare esistono, ammazzano, e…
E nemmeno tu, direttore, mi hai dato il minimo spazio e allora ho pensato che sì. Sì, ci sono i bancari che non sentono le ragioni di chi lavora e non ruba. Ci sono le aziende che spremono i giovani come limoni e appena possono cacciano i cinquantenni. Ci sono le amministrazioni pubbliche che invece di andare incontro al cittadino gli voltano le spalle. Ci sono stati sinora undici casi di crisikaze, in Italia, di cui sette qui da noi, a Milano. E così, guarda i casi della vita, questa sera si tiene un importante dibattito alla Camera del lavoro. E chi hanno invitato? Il famoso giornalista, tu.
Tra il pubblico, dopo l’ultimo drenaggio, lavata e profumata, vengo anch’io.
Ho studiato su Internet in quale modo replicare in casa quello che gli islamisti chiamano La madre di Satana. Non importa che non sia una miscela molto stabile, m’importa abbracciare il giornalista e tirare un cordino: andremo insieme nel cielo, sparati come missili, spero senza danni collaterali. Ma è che sono anche stufa di quelli che parlano e straparlano, ma poi pensano sempre agli affari loro.”
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Lo scrittore rilesse la storia che aveva finito di scrivere, la titolò Krisikaze copyright, poi cancellò “copyright”, ed era soddisfatto. Andava riletta, ma funzionava: e aveva anche inventato questa nuova parola, crisikaze (anche lui la preferiva con la “c”) che avrebbe potuto entrare nel linguaggio comune: “Figo”. Si sbarbò, si profumò e andò in banca. Doveva prendere del denaro in contanti, per pagare in nero i piastrellisti che gli avevano rifatto il bagno. E quando sentì: “Tutti a terra, non è una rapina, voglio un dieci milioni di euro e un elicottero, voglio gettare dal cielo banconote da cinquanta euro su Milano”, non si spaventò: “Cazzo, allora prevedo il futuro, sono come il mito Murakami”, gioiva, sdraiato faccia a terra in mezzo a gente che piangeva, prendendo mentalmente appunti.
All’alba ci fu l’irruzione in banca. I Nocs arrivarono con le crash bomb, e l’intellettuale, per non perdere qualche dettaglio, sporse la testa e avvertì un clangore. Pensò che non aveva mai vinto il Campiello e non riusciva a tenere gli occhi aperti. Ebbe però un’intuizione: la crisi degli intellettuali era arrivata ben prima della crisi finanziaria. Libri buoni non ne venivano scritti da dopo Testori. I suoi colleghi erano miseri “morti scriventi”, lui era diverso, lui aveva capit…
Comprese, rendendo l’anima, l’esatta traiettoria della pallottola del rapinatore: o avrebbe dovuto dire del crisikaze?