Io sono Napoleone. Sono Marilyn Monroe. Sono il Faraone.
Ogni mattina scelgo uno dei miei costumi. Esco. Mi metto in posa davanti ai portici di piazza Duomo. Se piove, mi metto sotto i portici. Sto fermo.

La gente passa e alza le sopracciglia, sorride. Uno su cento mi butta una moneta. Passa tanta gente, in piazza Duomo. Non mi posso lamentare.

I bambini si avvicinano per toccarmi, vogliono capire se sono una statua o un essere vivente. Domandano alla mamma che li tiene per mano se qualcuno mi ha fatto un incantesimo. Hanno ragione. Io ero una statua di sale che per punizione una strega cattiva ha trasformato in carne e ossa, condannandomi a vivere questa vita da essere umano.

Io avevo un destino più grande di questo. Volevo fare l’attore. A dodici anni sapevo a memoria tutta la parte di Otello. Mio fratello doveva fare un saggio di teatro all’università, io lo aiutavo a studiare la parte. La sera della prima si è ammalato. Mi sono presentato io.
“Sei troppo piccolo,” mi hanno detto Desdemona e Jago.
Ma il regista mi ha preso in disparte:
“Ti sono già spuntati i peli nelle ascelle?”
“No.”
“E questa vocina, proprio non riesci a farla un po’ più grossa?”
“No.”
“Nemmeno se ti sforzi?”
“No.”
“Perfetto.”
Poi ha chiamato gli attori e ha detto: “Sarà un Otello ragazzino. La gelosia si scatena molto prima degli ormoni, è un sentimento più forte, più universale del sesso.”
“Che bello,” ha detto Desdemona.
“Che pena,” ha detto Jago.
Anche il terrore si scatena prima degli ormoni. Sono entrato in scena, ho intravisto il pubblico in sala e sono rimasto paralizzato. Non ho saputo dire una parola. Non sono riuscito a muovere un muscolo. Sono rimasto immobile, in scena.

In piazza, io riesco a stare perfettamente fermo grazie alla paura. La gente mi terrorizza, non faccio nessuno sforzo a immobilizzarmi. Mi basta pensare che non sono solo: e un posto come piazza Duomo mi aiuta a ricordarmelo ogni momento.

Secondo me, quando non c’è nessuno, le statue si agitano, fanno degli stiracchiamenti di decompressione. Si rilassano dopo la tortura di essere rimaste esposte davanti agli altri. Le statue sono paura solidificata.

È la gente che mi riduce così, incapace di muovermi. Trovo giusto che qualcuno mi regali un soldino. Non mi stanno pagando per come faccio bene la statua. Mi stanno risarcendo di tutta la paura che mi fanno.

Io so fare Napoleone, so fare il Faraone. Ma per essere grandi uomini non è necessario saper stare fermi. Le statue sono una messa in scena. I monumenti sono bugie. Nella vita non serve a niente stare in posa. Tutti i grandi uomini hanno saputo fare il movimento giusto al momento giusto, altro che posa. La statua del re a cavallo al centro della piazza fa finta di muoversi, di combattere, ma è miserabile metallo paralitico, non riesce più a far succedere niente.

Io so imitare i grandi uomini del passato, ma solo da fermi. Loro hanno fatto grandi cose. Si sbracciavano, formicolavano. Imperversavano. Io sono alla loro altezza solo quando sto fermo. A stare fermi siamo tutti uguali. Sono i gesti quelli che fanno la differenza.

Eppure, ho anch’io la mia grandezza. Come so stare fermo io non lo sa fare nessuno.

Una volta ho combattuto contro il Fantasma che sta fermo dall’altra parte della piazza. Ci siamo messi uno di fronte all’altro. In premio non c’era nulla. Era una sfida. Il Fantasma non cambia mai costume. È vestito di bianco dalla testa ai piedi. Si imbianca anche i capelli e la faccia. È capace di tenere la lingua fuori per ore, la lascia seccare all’aria. È terribile la sua lingua, è violacea, varicosa, e quando esce fuori da quelle guance bianche ruggisce come una pianta carnivora. Io non lo so come faccia il Fantasma a vivere con quella bestia in bocca.

Per vincere la sfida il Fantasma mi ha fatto una smorfia stravolta, una faccia da pazzo. La gente che passava e lo guardava si teneva la pancia dal ridere, ma a certi gli scappava un “oh!” di spavento. Mi sembrava che i suoi occhi mi piantassero dei chiodi dentro lo sguardo, da quanto mi guardava fisso. Siamo andati avanti così per sei ore. Poi è successa una cosa. Ho pensato una cosa.

Ho pensato che quelle pupille che mi guardavano erano soltanto diaframmi di una macchina fotografica. E che il cristallino era una lente. E che l’iride era una corolla colorata immersa nel collirio. E che il suo occhio era una cosa. Nient’altro che una cosa. Così gli ho estirpato lo sguardo dagli occhi che mi ferivano con quei chiodi acuminati e profondi.

Poi ho pensato che anche lui, che stava imitando una cosa che imita un uomo, lui che stava imitando una statua, ho pensato che lo faceva talmente bene, era proprio una cosa, si meritava di vincere la nostra sfida perché non era nient’altro che una cosa. Non aveva bisogno di volere se stesso, per esserlo. Mentre lo pensavo, i suoi muscoli non sono stati più capaci di sostenere l’impalcatura del corpo. Il Fantasma è crollato di colpo. È svenuto. Ho vinto la sfida con un pensiero.

Gli occhi sono la parte più difficile da tenere ferma. E non parlo delle palpebre, che si possono battere insieme alla gente. Gli spettatori chiudono le palpebre tutti insieme, a ritmo. È come un respiro collettivo dello sguardo che succede alle folle quando si radunano. Durante quel battito di ciglia c’è tempo per fare qualsiasi cosa. Io che lo so ne approfitto per battere le ciglia insieme a loro e inumidirmi gli occhi senza che nessuno si accorga di niente. Ma ci sono alcuni miei colleghi che durante il battito di ciglia della folla sono capaci di mangiare una mela: proprio masticarla e inghiottirla tutta, e sputare lontano il torsolo all’insaputa degli spettatori. Si sono specializzati nell’immobilità, ma anche nei movimenti fulminei che si insinuano negli interstizi dell’immobilità.

È difficile tenere fermi i bulbi degli occhi. Io mi sono abituato a guardare tutto quello che riesco a vedere: anche le zone fuori fuoco, anche la periferia delle occhiate. Bisogna stare sempre all’erta, qualcuno potrebbe avvicinarsi per farti un brutto scherzo, soprattutto i barboni, di sera, che ti rubano le monete sotto gli occhi, se non stai attento. Gli occhi vanno tenuti fissi davanti a sé, ma intanto, dentro lo sguardo fermo, bisogna riuscire a spostarsi su e giù per l’immagine spalancata. Non solo nel punto al centro del mirino, ma in tutta l’inquadratura, negli angoli dell’occhiata. Succedono un sacco di cose, nella coda dell’occhio.

Il costume di Marilyn Monroe ha delle stecche di filo di ferro sulla gonna per tenerla sollevata dietro. Rappresenta il momento quando Marilyn passa sopra la presa d’aria. È il mio costume più comico. Fa effetto vedere Marilyn con le gambe pelose che cerca di tirarsi giù la gonna svolazzante per un colpo di vento. È una trovata da quattro soldi, ma fa effetto. C’è sempre qualcuno che si avvicina e mi tira i peli delle cosce sotto i mutandoni, la gente si diverte.

Un mese fa è passato un signore molto distinto. Portava un cane al guinzaglio. Il cane si è avvicinato, ha alzato la zampa e mi ha fatto la pipì sugli stivali. Ero vestito da Napoleone. Il signore non ha strattonato via il cane. Lo ha lasciato fare, fino all’ultima goccia, e intanto mi guardava, sorridendo. Volevo dare un calcio al cane e un pugno al padrone. La gente intorno applaudiva. Ma senti che stronzi.

Poi ho ascoltato bene. “Bravo Napoleone, sei un artista!” dicevano. Applaudivano me, non il signore col cane. Il cane c’era cascato. Ero riuscito ad abbindolare un cane. Il signore distinto mi ha lasciato una banconota grande come un fazzoletto, tutta colorata.

La mia ragazza è una persona molto spiritosa. L’ho conosciuta in piazza. Le ho insegnato il mestiere. Adesso stiamo uno di fronte all’altra, ci guardiamo per ore. Le ho prestato il costume da Marilyn. Fa tutto un altro effetto, addosso a una ragazza. Incute rispetto. Nessuno si sogna di avvicinarsi e darle un pizzicotto sulla pelle bianca. Gli spettatori si vergognano, di andare a guardare sotto la gonna. La gente fa silenzio e medita.

La domenica, io e la mia ragazza andiamo al mare a fare lunghe corse sulla spiaggia, a perdifiato.


Tiziano Scarpa


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Smemoranda 2004


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