Approfitto dello scarto solito tra il momento in cui si scrive e la data di pubblicazione (ancor più perverso nel caso di un’agenda, di un diario che insegue lo srotolarsi del giorno per giorno; impossibilitati a essere di oggi, gli scritti – tristi e faceti – si mutano di colpo in “letteratura”). 
Ai primi di marzo (mi pare) millenovecentonovantacinque (o forse era febbraio?) furono segnalati uno dopo l’altro due giganteschi pericolosi iceberg staccatisi dall’Antartide. Dicendo Polo Sud l’immagine drammatica dello sgretolamento evocherebbe ahimè le vicende di un altro Polo, quello che ha visto il distacco di Iceberg “traditore” Bossi. Antartide, allora; anche se il nome, puramente inverso e antagonistico al Polo Nord (Artide), fa di nuovo pensare alle vicende politiche del paese italiano; la cosa ci porterebbe troppo in tema, essendo l’Italia il centro, l’apice clitorideo del Mediterraneo.
Diciamo solo laggiù? In fondo (in culo?) al mondo? Non mi intendo molto di poli magnetici e di gastronomia, e conosco le regole del quieto (sopra) vivere: per esempio, non chiedersi troppo perché parliamo queste lingue e non altre, perché il sentimento si è coagulato in mamma e il timore o terrore dell’abbraccio finale in quella dentale dura, t, che spezza l’abbandono macinante e quasi amoroso di mor. Alla fine le parole si sfanno in bocca, le corde vocali si attorcigliano, resta un gorgoglio liquido affiorante alle labbra, poi il silenzio. Però fin da bambino, quando la luce di certi tramonti anche sul più piatto degli orizzonti di pianura ti impone una sospensione e un dubbio metafisico, o quando Merckx amatissimo cannibale viene battuto in volata da Gimondi, o Romario fa sparire la palla e la fa riapparire dietro il muro dei migliori difensori del mondo (Baresi, Maldini..), o più semplicemente quando non hai o non vuoi usare uno stecchino e la lingua cerca ossessivamente di ungularsi per togliere una scheggina di carne infilata tra due denti, mi sono chiesto quale mente suprema, quale referendum cosmico abbiano deciso l’orientamento dell’universo, il sopra e il sotto, la destra e la sinistra; in quale Libro si sia trovato l’indizio per la visione “giusta” del sistema solare, quella in cui la Terra ha il Polo Nord sopra e il Polo Sud sotto, in cui la penisola italica pende invece di ergersi. Col dubbio che sia una visione rovesciata o sghemba, una foto stampata al contrario, un quadro che va riappeso dall’altra parte. Tanto poi, se la terra è rotonda, siamo tutti comicamente attaccati per i piedi a testa in giù.
Contorsioni per dire che la prima volta in cui – già fuori tempo massimo – il tema “Mediterraneo” mi è parso acquistare un senso è stata quando, sia pur brevemente, si è tornati a parlare di effetto serra, di riscaldamento del pianeta: scioglimento delle calotte, aumento più o meno traumatico del livello dei mari, sparizione di intere zone, e di Roma Napoli Hong-Kong Los Angeles Tokyo New York…
Poi, magicamente, l’ombra bianca e cupa degli iceberg si è dissolta (o forse i mesi tra il mio e il vostro ora l’hanno riproposta), il chiacchericcio delle opposte opinioni scientifico-giornalistiche si è smorzato, e si è avuta la certezza che nulla (salvo la principessa Diana e Claudia Schiffer) persiste sulle (prime) pagine dei giornali, e che anche in caso di fine del mondo annunciata godremmo poi di una tregua di uno sbiadimento e scadimento della notizia, di un oblio lieve.
Non sono di quelli che hanno amato il film Mediterraneo, proprio no; e il sole sulla spiaggia mi scotta. Nei miei sogni di archeologo bambino cercavo di fuggire, per via ittito-anatolica, dal piccolo e pur dolcissimo e solare bacio in cui la geografia mi aveva imprigionato, il bacino mediterraneo.
Ma la minaccia di sparizione di quella forma, di quella macchia, di quel mare-lago, mare-ponte tra i continenti (davvero un bacio orgiastico fra tre di loro), set in miniatura per tutte le avventure e i miti, cinecittà del mondo prima del cinema, me lo fa sentire dentro più ancora che vicino quel punto. Quella media temperatura, quella vicinanza di estremi, quel rimbalzo di sponda in sponda anche dalle spinte più forti, quel condensarsi siciliano di tremila culture, e perfino l’ignoto lì, così domestico e a portata di mano appena fuori dalle colonne d’Ercole. Tutto caduco come le pievi toscane in pietra serena, tutto costosissimo da restaurare e difendere, tutto pronto a distruggere o a svanire per decisione divina o per colpa dello spray che anche tu ieri mattina… (le opinioni divergono).
E proprio ora, che dopo secoli di illusione del centro, e dopo cinquantanni di pura spettatorialità (con tutta l’Europa in poltrona), il bacino è attraversato da spinte e bagliori e fedi e nulla incrociati che sono quelli di tutto il mondo, e perfino l’Italia televisiva è un laboratorio unico perverso e tenero.
E quella forma, quel mare frastagliato, quella costa italiana così frattale, sarebbe un peccato sparissero per restare solo dentro internet, ripescati in una rete da un pescatore stellare ancor meno consapevole di Ulisse, un altro nessuno in balia di sirene…

Enrico Ghezzi


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Smemoranda 1996


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