Epitaffio per Max Headroom

di Stefano Bianchi su 16 mesi - Smemoranda 1990





II cartoccio di pollo fritto era lì, raggrinzito e maleodorante, sul computer. Nel mio stomaco non sarebbe passato nemmeno uno spillo. Presi il pacchetto, mi tappai il naso e raggiunsi caracollante la cucina. Sollevai il coperchio della pattumiera e lo buttai dentro. Erano dieci giorni che me ne stavo rintanato in casa. Il duemila era iniziato nel modo più fetido possibile, per quanto mi riguardava. La mia testa era vuota, le tempie marciavano come soldatini di piombo impazziti. Da uno spiraglio della persiana potevo vedere la città dormire. Le pupille elemosinavano un po’ di sonno. Dal cartellone pubblicitario in bilico sul palazzo di fronte la ragazza del caffè, con quel suo odioso sorriso strafottente stampato sulle labbra sembrava dirmi: “Scovalo il prodigioso entertainer elettronico, provaci, dai, è un gioco da ragazzi…” La solita nenia rimbalzava sulle pareti della mia scatola cranica: è meglio che te ne vada in pensione, ormai i tuoi sforzi sono funi che si appigliano al Nulla. Il “prodigioso” presentatore computerizzato. Trovalo, ineffabile detective. Io, l’impietoso schiaccia-pusher, il babau dei topi di fogna. La feccia urbana la polverizzavo sotto le dita, inesorabilmente… Sia maledetto il giorno che accettai l’incarico dall’Organizzazione per la Tutela Telematica. Max Headroom aveva piantato in asso XXX, il suo network televisivo a diffusione mondiale. Scomparso. Volatilizzato dalla memoria centrale. Proprio mentre i dati dell’audience registravano picchi senza precedenti. Nonostante il suo programma per cuori solitari indicasse flessioni di gradimento. Max l’azzimato, l’iper perfetto, l’asettico anchorman sempre così beffardamente giovane, aveva sprofondato tutti nella paltò, : compreso l’ineffabile detective. XXX non poteva andare avanti ancora per molto con i riciclaggi dei programmi di Headroom. Il pubblico iniziava a sentir puzza di bruciato. Il Grande Colonnello dal suo quartier generale di vetro e acciaio sentiva sfuggirgli la situazione di mano. Tutto era nelle mie mani impotenti, nel mio cervello di cartapesta. Nelle meningi di un poliziotto da sbattere in pensione, lo e il mio Personal Computer. A digitare numeri e lettere, a tentare combinazioni che potessero materializzare sul terminale il faccione spigoloso di Max. E invece niente. Il monitor come un elettrocardiogramma piatto. Da dieci giorni. Stavo cedendo le armi. Il mio posto era nel posacenere, tra le sigarette consunte. Io, piccolo mozzicone schiacciato dal “prodigioso” presentatore elettronico. Lâocchio vagava per la stanza. Si fermò sullo scaffale dei libri. Da una parte, dimenticati e impolverati, alcuni dischi. Mi alzai dalla poltrona, andai verso le mensole e presi un album: era del 1986, degli Art of Noise. Il titolo: Paranoia; con Max Headroom. Già, ricordo. Scalò le Hits in poche settimane. La carriera dellâibrido azzimato iniziava da lì. Un brivido scosse la mia spina dorsale. Il numero di catalogo stampato sulla busta! Riattivai il computer, digitai freneticamente CHSC 418 ö INVIO. Era la chiave dâaccesso. Apparve sul terminale unâimmagine disturbata che articolava frasi senza senso: Lottizzare… Assoggettare le masse… Ed ecco a voi… A Wop Bop A Loom A Bop A Lop Bam Boom… Spot… Spot… Era Max Headroom, il suo sorriso stantio adesso lo vedevo benissimo. E gli occhi di ghiaccio, i capelli meccanicamente al loro posto… Dovevo bloccarlo, dargli spago. Poi avvisare lâOrganizzazione per la Tutela Telematica. Il cuore mi batteva in testa, ma dovevo dare a Max una parvenza di tranquillità. Fallo parlare, vecchio incorruttibile piedipiatti! “Pensavo che non mi avreste mai trovato, ma a quanto pare in giro câè qualcuno più furbo di me…”, esordì Headroom con quella sua odiosa voce metallica. Lo incalzai: “La mia vecchia passione per gli Art of Noise non conosce ostacoli!” E lui, il mezzobusto artificiale: “Me ne fotto! il pubblico deve sentire la mia mancanza… la TV sono io! Il cordone ombelicale, lâunico Messia del palinsesto! Se Max non câè più, niente informazioni reali, né attendibili dati politici…”. “Ma come, proprio ora che XXX si può permettere di polverizzare ogni record…” “Palle! I nuovi dati dâascolto sono fittizi, li ho inventati io. Il network sta andando a picco per colpa di voi utenti. Vorreste una televisione sempre più fagocitante, magari con un nuovo Max Headroom…” “Ma allora…” “…Allora vi siete dimenticati di tutto quello che ho fatto per voi… Il 12 luglio 1991 salvai Bush da un attentato terroristico… I miei talk show creavano opinione, peso politico… Le mie azioni quotate a Wall Street vi hanno arricchito…” “… E una fetta del tuo impero costruita sulle ceneri della foresta amazzonica…” Avrei dovuto cucirmi la bocca, stare calmo; dire: ma come sei stato bravo, inossidabile Max, torna fra noi… Max mi guardò dritto negli occhi, la sua faccia aveva degli scatti improvvisi. Sudavo freddo. Non stavo sognando: dal video mi puntava addosso una pistola. Ricominciava a pronunciare frasi sconnesse, sentivo sibili elettronici. Mi buttai sul pavimento per poter scansare la revolverata. Lui, paranoico, non la smetteva mai di fissarmi. Aspettavo lo sparo, era solo una questione di secondi. Max ebbe un sussulto. La sua mascella scricchiolò. La mano non riusciva più a trattenere la pistola. Il volto, così schifosamente perfetto, iniziò a gonfiarsi, a inflaccidirsi e progressivamente ad invecchiare. Sempre più velocemente. Il “prodigioso” re del tubo catodico parlava come un vecchio grammofono. Gracchiava. Poi lanciò un urlo e l’immagine svanì. Fuori la città riprendeva il suo ritmo collassante. Quella nottata da pazzi era finita. Non mi reggevo in piedi. Accesi il televisore. La voce dell’annunciatrice blaterava: “Ben sintonizzati su Network XXX! È un nuovo giorno! Camminiamo insieme nel ventunesimo secolo!” XXX aveva i giorni contati. Max Headroom era morto ma nessuno mi avrebbe mai creduto. Restava un segreto tra me e il computer. Dopo poche ore rassegnavo le dimissioni. La TV mi aveva pugnalato alle spalle.    


Stefano Bianchi


Vedi +

Smemoranda 1990


Vedi +