Nessuno era più adatto di lui a quel tipo di lavoro.
Aquilino Prendimonti aveva quasi ottant’anni e una vita che era stata un inferno. Certe volte il destino s’accanisce con alcuni, è per quello che altri sono fortunatissimi. Perché non c’è ordine nella distribuzione e il caso spesso esagera.
Fino ai quarant’anni aveva perso tempo a dannarsi per ogni cosa, gli altri quaranta li aveva spesi a esercitarsi nella più nobile arte della rassegnazione. Era diventato un deluso esperto – la conclusione, alla fine, era stata banale: una vita sciagurata è come tutto il resto, capita.
L’unica cosa che la vita ti fa scegliere sono le rughe: se fartele venire per il sole, per le risate e la stanchezza, oppure per il rancore. Ad Aquilino, il tempo trascorso a fare distillati di rabbia si leggeva tutto in faccia, la vecchiaia c’entrava poco col viso tutte grinze che si ritrovava. Altri segni particolari: labbra sottili e contratte come un elastico giallo da ufficio, la barba che non s’era mai decisa a crescere, un’acne irrimediabile che lo aveva afflitto da ragazzo aveva lasciato tutte le cicatrici che poteva, senza sconti.
Come le storie tristi, la sua cominciava con un’infanzia catastrofica.
Fino ai dieci anni ricordava solo tre cose: il cortile grandissimo dove andava a piangere, la bicicletta mai arrivata per cui aveva supplicato quattro volte Babbo Natale, il padre e la madre che s’azzuffavano pure a Ferragosto. Si sa, l’alta tensione matrimoniale si scarica su quel che è più vicino, i bambini. E lui era un bambino con un cortile ma senza una bicicletta.
Tra l’altro era figlio unico, gli era stato quindi negato il sollievo di prendersela con un fratellino. Poi, verso i dodici anni, aveva capito che peggio di una vita senza una bicicletta c’è un uomo che odia sua moglie. A tredici anni, l’ultima scoperta: peggio di un uomo che odia la moglie c’è solo un marito che abbandona la famiglia.
All’improvviso il padre se n’era andato via, e aveva fatto perdere tutte le tracce di sé, tranne il nome di una strada e una città lontana milleseicento chilometri, due righe scritte su uno scontrino del Totocalcio. Gli aveva spedito centoventisette lettere, Aquilino, tutte tornate al mittente per indirizzo sconosciuto.
Magari fosse rimasto a casa a urlare. Perché un padre che ti rende la vita impossibile resta un padre che paga qualche bolletta. Aquilino e la madre erano rimasti soli. Lei aveva fatto l’impossibile, Aquilino si era sempre sentito come una zavorra che le impediva di vivere. E infatti lo era, e gli veniva rinfacciato quasi tutti i giorni “io non ce l’ho una vita! Io ho solo un figlio!” questa era la buonanotte quando la mamma tornava a casa di sera dal lavoro, anzi dal secondo lavoro, di mattina all’amministrazione di un supermercato e di pomeriggio badante di un’anziana.
Fidanzate nel numero di zero. Aquilino aveva capito l’antifona: i pessimisti non li vuole nessuno, l’amore pretende gente allegra. Dopo due tentativi falliti di offrire un caffè a una ragazza, aveva smesso.
Per questo non c’era nessuno più adatto a quel tipo di lavoro. Aquilino sapeva cos’era il rancore. L’aveva sentito, l’aveva visto, involontariamente l’aveva causato.
Insomma andava tutto male, finché un giorno, quando non ci sperava più, l’unica felicità della sua vita finalmente si decise ad arrivare. A ogni male è data una possibilità di guarigione: la sua salvezza si manifestò sotto forma di contratto di lavoro.
Gli scoppiò quasi il cuore di gioia quando lesse l’annuncio sul giornale. Aveva sostenuto il colloquio sicuro che il posto sarebbe stato suo all’istante, un po’ perché se lo sentiva, un po’ perché non c’erano altri candidati con il suo curriculum. Sarebbe diventato Il Guardiano del Fiume. Proprio lui, Aquilino Prendimonti.
Esiste davvero, quel fiume, il fiume che raduna sulla riva tutti i vendicativi. Ti siedi sull’erba e aspetti, il cadavere che desideri presto o tardi arriverà. Insomma, vendetta. L’unico rimedio contro il rancore. Non s’è trovato di meglio. Vendetta, è facile: non ti senti meglio tu, ma fai stare male un’altra persona. Quasi la stessa cosa.
Era andato avanti così per anni anche lui. Poi si era stancato. Del dolore ci si stufa prima che di tutte le altre cose.
Aquilino aveva capito che tra i sentimenti il rancore era quello più infinitamente a vuoto, perfino più a vuoto dell’amore non corrisposto. La vita lo aveva messo a parte di un segreto: l’unico cadavere che vedrai su quella riva, la riva del fiume, sei tu che attendi. Aspettare seduti è un po’ morire. E con questa predica solenne li convinceva, i visitatori, uno a uno, a lasciar perdere.
C’era Beatrice, disperata perché l’avevano lasciata dieci giorni prima del matrimonio. L’aveva presentata a Cesare, un insicuro cronico. La sua fidanzata l’aveva tradito col suo migliore amico. Tutti e due liquidati con: “Scusami tanto, ma la vita va così”. E come no. Solo che “la vita va così” loro non ce l’avevano dalla parte del manico.
Beatrice e Cesare erano due condannati a non innamorarsi mai più, talmente terrorizzati dall’idea che qualcuno li ferisse di nuovo che Aquilino ci impiegò un attimo per metterli assieme. Si fecero il giuramento di non lasciarsi mai, Beatrice e Cesare, nemmeno se fosse passato l’amore.
L’unico modo per mandarli via dalla riva del fiume era farli innamorare tra loro, con pazienza. Aquilino lo considerava un trionfo personale, aver capito quel trucco. Comprensione, fiducia, intelligenza, delicatezza. Tutte virtù dai nomi tonanti, e tutte inutili. È l’amore l’unica colla per quando ci hanno fatti a pezzi.
C’era uno solo, tra tutti i visitatori, che restava sempre in disparte. Era un ragazzo sulla trentina, segaligno e smunto, non parlava mai con nessuno. Uno di quelli solitari di proposito. Un giorno Aquilino gli si avvicinò e gli chiese: “Giovanotto, perché sei qui? Vediamo se posso aiutarti”. Parlò con un ampio sorriso da vecchio amico improvvisato, cercò di evitare il solito tono da saggio anziano, sapeva quanto poteva irritare la gioventù “Chi aspetti, tanto per cominciare?”
“C’è qualcuno da aspettare?” replicò il ragazzo, senza smettere di fissare l’acqua.
“C’è sempre qualcuno da aspettare sulla riva del fiume. Di solito è per questo che vengono qui tutti” Aquilino gli tese la mano a sfiorargli il polso per cercare un inizio di confidenza.
Ottenne solo un secondo “Ah” di risposta, ancora più pigro del primo. Però si era voltato. “No” continuò “io perdo solo un po’ di tempo, non aspetto nessuno. Non conviene aspettare niente, figuriamoci qualcuno”.
Smisero di gracidare anche le rane. Un accenno di sole sulla collina. Aquilino avvertì un fremito nelle gambe. Si sentì bene come non gli capitava da anni, quasi capito. Il ragazzo era giovane, e con la faccia troppo liscia per aver sofferto qualcosa nella vita. Eppure era così profondo. Non conviene aspettare niente, figuriamoci qualcuno, aveva detto. Aquilino sorrise: era lui, gli poteva affidare il fiume, poteva lasciarlo, andarsene al mare finalmente. Il mare. Pensava sempre al mare, ultimamente. Ci pensava più che a quella bicicletta di quand’era piccolo. L’umidità iniziava a rodergli le ossa. Era proprio il sostituto che cercava, questo ragazzo. Calmo e misurato nelle parole, avrebbe convinto i visitatori a tornare a casa e ricominciare. Cambiare città, cambiare lavoro, cambiare amici. Perché proprio la riva del fiume? Aveva finito il fiato, per dire ai vendicativi che la vendetta, calda o fredda, non sa di niente.
“Vieni qui, ragazzo” gli guardò meglio il volto sereno. Forse era un volto su cui erano già passate parecchie tempeste. Si dice che ai veterani a un certo punto scompaiano le cicatrici. Ora si chiedeva quanto aveva sofferto, per non portarne nemmeno un segno sulla faccia. Era impossibile che non avesse assaggiato il dolore, un giovane così adulto. È il dolore che produce saggezza, o no? Il giovane s’avvicinò.
“Ti piacerebbe questo lavoro?” gli chiese subito, decise che non c’era neppure bisogno di troppe premesse.
“Quale lavoro?” domandò il ragazzo.
“Il mio” rispose con un sospiro Aquilino. “Vegliare sulla gente che aspetta, quelli che meditano vendetta. Convincerli che non vale la pena, per nessuno. Che non succederà nulla, sulla riva del fiume, mentre aspettano. Nessun uomo è così grande da meritarsi il tempo di un altro. Dovrai fargli capire che devono andarsene.”
Il ragazzo rispose con un entusiasmo da bambino, quello che illumina gli occhi e la voce: “Mi piacerebbe moltissimo questo lavoro2.
“Bene” Aquilino si sentì benedetto da qualche dio generoso, forse il dio della pensione. “Cominci domani. Come ti chiami, figliolo?”
“Godot.”
Aquilino si chiese dove l’aveva già sentito, questo nome. Godot. Non era per niente nuovo. Godot. Qualche pubblicità? In ogni caso, pure se l’avesse già sentito da qualche parte, gli faceva male la schiena, era troppo vecchio per il fiume. A una certa età pensi solo che vuoi andare al mare.