Ciao per me vuol dire libertà.
Altro che Phantom, SR o Booster, il mio mezzo di trasporto era un rottame della Piaggio di fine anni ’70, reso ancor più imbarazzante dalla presenza di un enorme parabrezza e di una sacca portalettere (che mio padre consegnava ogni mattina). Un macinino che mi ha condotto ovunque nel raggio di 15 chilometri, una storia d’amore bellissima e fragile, destinata a capitolare in una profondissima buca. La stabilità non era il tuo forte amico, ma per un paio di anni sei stato, come canta uno di Bologna, le mie ali sotto i piedi.
E a proposito di Bologna, ciao per me vuol dire Lucio Dalla.
E quel suo orecchiabile mantra, quella buffa danza su una spiaggia fasulla. Una canzone agrodolce come il suo video, girato su una nave sovietica. Un affresco della società e delle sue contraddizioni dipinto dal pittore naif della musica italiana. Quanto ci manchi Lucio, quanto ci manca poterti dire ciao!
Ciao per me vuol dire Italia ’90.
Un’estate italiana di torrida passione scandita dai goal di Schillaci e dalla mia prima esaltante raccolta di figurine Panini. Collezione in cui i calciatori finirono in secondo piano, surclassati da quella mascotte sghemba chiamata Ciao appunto: un agglomerato di cubi tricolore, un omuncolo privo di grazia il cui nome fu scelto tramite un sondaggio su Instagram… Ehm pardon, sulle schedine del Totocalcio. Pensate che gli altri nomi in lizza erano Amico, Beniamino, Bimbo e Dribbly. Se per l’aspetto gli è andata male, sul nome poteva andargli decisamente peggio.
Ciao per me vuol dire vita.
Significa aprirsi, confidarsi, fidarsi. Ciao è la parola che dà il via ad amicizie, amori, incontri e spesso li chiude. È la parola che sgretola il muro dell’indifferenza, cosa che un salve di circostanza non riesce a fare. E poco importa se negli ultimi anni sono proliferati la sua rivisitazione 2.0. (bella!) o l’esotico (hola), ciao rimarrà un classico intramontabile, di quelli che più passa il tempo e più diventa figo, un po’ come la Smemo.