Forse smetto di fumare

di Enrico Brizzi su 12 mesi - Smemoranda 2006





E comunque, con la Panda senza aria condizionata, per arrivare a Portosicuro ci ho messo nove ore e mezza.
Nove ore e mezza all’andata e quasi dodici al ritorno, fra code, rallentamenti, cani morti sotto i camion e l’esodo solito di ogni estate.
Prova a immaginare cos’è traversare l’Italia in autostrada il primo weekend d’agosto.
Figurati il qui presente Manolo abbarbicato al volante della Panda, la Frenci semisdraiata dietro e suo padre, un vecchio mezzo paralitico tifosissimo della Vis Portosicuro seduto al mio fianco. Ha tutta la parte sinistra paralizzata, poveretto, e cammina solo con un bastone a quattro piedi, però è un tipo in gamba e mentre scendevamo a casa loro era felice come una pasqua.
Il primo figlio che si sposa, capirai.
Achille è il più grande, seconda viene la Frenci e poi ci sono due fratelli più giovani, di venticinque e ventitre anni.
La Frenci è l’unica che ha studiato all’università; da giovani, sia Achille che gli altri due hanno avuto problemi con la Giustizia, ma adesso sono tutti e tre lavoratori e ragazzi a posto.
Achille ha un’impresa edile e due maròni così. Lo rispettano tutti, giù a Portosicuro. Devi vederlo. Parla sempre ad alta voce, come il comandante di una nave, ma è simpatico a tutti. Quando entra in un locale il gestore è felice di vederlo, esce da dietro il banco e va a stringergli la mano. “Allora, ragazzi”, dicono quando sei con lui. “Cosa vi do da portare a casa? Formaggio? Salame? Una buona bottiglia?”.

Arriviamo a Portosicuro che è notte, ma Achille e i fratelli fanno riaprire una pizzeria che aveva la saracinesca già abbassata: arrivano non so come dei suonatori, e praticamente c’è questa festa fino all’alba in onore del padre e della sorella dello sposo. Era la prima volta che conoscevo i fratelli più giovani della Frenci, e non hanno fatto che studiarmi di sottecchi e mettermi alla prova. Per fortuna Achille mi proteggeva, e anche loro padre era gentile con me. E te lo credo, dopo nove ore di viaggio in cui l’ho ascoltato snocciolare le formazioni della Vis Portosicuro anni Cinquanta.

Passiamo due giorni laggiù trattati come principi. Andiamo in spiaggia, mangiamo nei ristoranti migliori e la sera prima del matrimonio la Frenci mi chiede cosa penso di mettermi per la cerimonia. Di nascosto da lei, avevo comprato per l’occasione un paio di scarpe di legno furibonde, color visone, suola a piattaforma con le cuciture ribadite e punta molto accentuata, quasi da arabo. Un paio di capolavori come quelli sono da valorizzare, così ho spiegato alla Frenci che pensavo di metterle in risalto non indossando la giacca. Una semplice camicia di garza nera, i pantaloni di lino e le scarpe a punta sarebbero bastate a fare di me uno degli uomini più in vista della festa.

Il giorno del matrimonio dirigiamo in corteo verso il quartiere San Salvo, le tre mercedes di Achille e i fratelli minori incolonnate, e la Panda  del sottoscritto a chiudere la carovana.
Vicino a Portosicuro ci sono spiagge magnifiche, come ai Caraibi, ma la città in sé è un posto tetro.
Un ventaglio di moli e, nell’interno, solo grattacieli grigi che cadono a pezzi.
Non è un bella città, e nel cuore del quartiere San Salvo, dove se non sei gradito ti sparano dalle finestre, in mezzo alle selve di grattacieli si apre uno spiazzo di cemento grande metà d’un campo da calcio: sembra un parcheggio, ma è il sagrato di una piccola chiesa chiamata Maria Consolatrice.
Neppure la chiesa è bella, con la guglia in cemento del campanile, ma in mezzo ai grattacieli senza intonaco fa la figura di qualcosa di piccolo e grazioso.
Dietro la chiesa vera e propria si allunga un prefabbricato che ospita i locali della parrocchia e il dormitorio di una comunità di recupero per ex-tossicodipendenti pronti al reinserimento nella vita sociale.
Don Biagio, il parroco scelto per celebrare il matrimonio è anche il responsabile della comunità all’interno della quale Achille ha maturato la sua nuova scelta.
Anche la ragazza che oggi sposerà, una ragazza sul cui conto nessunissimo trova da ridire, è una vecchia conoscenza del prete. Fu lui a battezzarla nel 1980, l’ha vista crescere dagli anni del catechismo fino al gruppo del dopo-cresima. Quando si è trattato di rassicurare i genitori di lei sul conto dello sposo, don Biagio ha accompagnato di persona Achille a incontrare i futuri suoceri.

Il nostro piccolo corteo d’auto si ferma all’ombra dei grattacieli del quartiere San Salvo, in mezzo a questa piccola folla di parenti e amici tirati a lucido.
Perché laggiù a Portosicuro fanno ancora le cose secondo il vecchio stile nazionale: i padri di famiglia portano i baffi, le mogli le distingui dai grandi girocollo d’oro, mentre i cugini più giovani, con addosso l’abito della cresima, hanno teste così nere e lucide di brillantina da sembrare, sotto i barbagli del mezzogiorno, pitturate a china.
Tempo di raggiungere il cuore del sagrato e Achille, tight bianco e gardenia all’occhiello come un cantante di pianobar, viene risucchiato dal gorgo di zii e cugini che lo vogliono baciare. Anche i due fratelli giovani spariscono fra i mulinelli degli amici, così non posso fare altro che avvinghiarmi alla mano della Frenci e supplicarla di non lasciarmi solo.
Vengo presentato a una cinquantina di parenti, in massima parte chiamati Biagio. Ogni volta che stringo una mano mi rivedo sdoppiato sulle lenti d’un nuovo paio di califànici occhiali a specchio, eppure non smetto di sentirmi al centro dell’attenzione di tutti i Biagio ai quali sono stato presentato in precedenza.
Certe facce da delinquenti professionisti, questi Biagio, che non sapendo più se sentirti protetto o in estremo pericolo, dopo un po’ ti rilassi per forza.
Va detto, per amore di completezza, che sono l’unico alternativo senza giacca: il bulbo irto per ciuffi tenuti insieme dalla spuma, la basetta dinamica e la drammatica decisione di non indossare una giacca mi segnalano a molti metri di distanza come il fidanzato forestiero della sorella studentessa di Achille.
Anche le scarpe di legno color visone non passano inosservate, ma non suscitano quel genere di quieta ammirazione che pure un paio di calzature costate una settimana di stipendio dovrebbe garantire.
Determinati ragazzini – figli dei cugini di Masseria Vitalone, spiega la mia donna mentre la piccola folla coagula sul sagrato in attesa della sposa – proprio le indicano a dito e ghignano senza ritegno.
“Eleganti sono eleganti”, mi faccio forza. “Non è colpa mia se quaggiù portano solo scarpe nere a punta tonda come prima della guerra”.
“Vedi” dice la Frenci “ti avevo detto che a stare sul classico non sbagliavi”.
C’era di che incazzarsi, se pensi che era stata lei a incoraggiarmi perché venissi al matrimonio di Achille senza mettermi problemi di forma. “Vestiti come ti senti a tuo agio, l’unica cosa che m’importa è che non sembri un poveretto”.
Il fatto è che la mia donna, con tutto che è una bravissima ragazza, a volte è molto insicura.
In ogni caso i poveretti, a casa mia, non hanno mai speso quattrocentocinquanta euro per un paio di scarpe, così più i mocciosi mi provocavano chiamandomi ‘sceicco’ oppure ‘marajà’, più io mi intestardivo a esibire le scarpe di legno color visone.
Muovevo piccoli passi laterali, oppure battevo le punte una dopo l’altra sull’asfalto del sagrato come nell’istante che precede la breve rincorsa del rigore.
A quasi trent’anni, ho da pensare a ben altro che agli scherzi dei ragazzini.
Ad esempio, quando vado a un matrimonio cerco sempre di tenere a mente cosa mi piace nell’organizzazione. Ho un quaderno, a casa, in cui segno tutto per ricordarmene quando verrà il mio momento.
Così, dentro di me, ero già intento a prendere nota di alcuni dettagli – la gardenia all’occhiello dello sposo, la prua lucida della mercedes che aveva guidato di persona fin sotto la chiesa – quando una voce forse tredicenne esplode alle mie spalle. “È arrivato il califfo”, ghigna la voce “l’emigrato arabo unito”. Mi giro sfoggiando un sorriso di perdono indirizzato al colpevole, un ciccione tredicenne dagli occhi a fessura alto forse un metro e mezzo. Gli invitati adulti disposti nei paraggi non si accorgono di niente, o forse pensano che sia tutto nella norma. Il colpevole ride e fa in tempo ad agitarmi sotto il naso il gesto delle corna, prima che un Biagio torvo e tarchiato plani dalle retrovie ad afferrarlo con le grosse dita per l’attaccatura d’un orecchio.
“Mi fa male”, geme il ciccione tredicenne. “Mi fa male, zio”, ma l’uomo, senza una parola, lo trascina nell’indifferenza generale verso la periferia del gruppo. Per un poco li seguo andar via, ma quasi subito alle loro spalle si richiude un sipario di chiome cotonate e chiome maschili aderenti al cranio.

Nel sole a picco di mezzogiorno neppure i palazzi a venti piani offrono un briciolo d’ombra, e piccole brigate di ragazzini dei dintorni cominciano ad addensarsi ai lati del sagrato: alcuni giocano con i tappi di birra in ginocchio sull’asfalto, altri planano in stormo sulle biciclette, poi da qualche parte verso l’ingresso dei grattacieli salta fuori un pallone e vedi il gruppo di juniores che si raduna devoto per andare a pregare a modo suo sotto la cattedrale di traiettorie a pallonetto.
Possiamo trovarci sul sagrato da forse mezz’ora, e ancora della sposa non si è vista neppure la punta del naso.
I parenti più anziani cominciano a rifugiarsi per drappelli all’interno della chiesa, ma i fratelli e gli amici insistono che non si può lasciare Achille da solo.
“Non è da solo”, suggerisco alla mia donna quando la vedo agitare con più nervosismo il ventaglio. “Saremo perlomeno duecento, qua fuori”.
Ma lei, per cabala, non ne vuole sapere di entrare in chiesa prima della sposa.
“Tanto” dice “abbiamo il posto riservato in prima fila, insieme a papà”.
“Come vuoi”.
“E dire”, insiste indicando col ventaglio la prima selva di grattacieli allineati a chiudere il sagrato, “che abita proprio qua dietro”.
“Porta pazienza. Se vuoi aspettare fuori, almeno un briciolo di pazienza ce lo dovresti mettere”.
“Va bene la pazienza”, mi sibila all’orecchio “ma così, per fare la star, finisce che fa prendere un’insolazione a tutti”.
Per calmarla, non trovo di meglio che cercare riparo insieme a lei sotto lo spiovente del tetto della chiesa, sulle estreme pendici della rampa che, sviluppando per cinque gradini, conduce all’orbita spalancata del portone d’ingresso.
Ci sono vasi di fiori, ai lati del portone, e vasi di fiori all’estremità di ogni gradino, guarniti di felci, spighe e nastri colorati.
A pochi passi da noi, una lunga panca disposta ad angolo acuto rispetto alla facciata della chiesa ospita quattro gabbie allineate e coperte con pezze di cotone a strisce colorate.
Un uomo segaligno dagli zigomi sporgenti, inguainato in un gessato color tabacco, monta la guardia presso la panca e il suo curioso carico, e mentre la Frenci racconta gli ultimi dodici anni della sua vita a una cugina di Masseria Vitalone sformata dalle gravidanze, decido di accendere una marlboro e dare un’occhiata da vicino.
“Le posso chiedere, signore”, domando con bei modi urbani all’uomo dagli zigomi sporgenti “cosa contengono queste gabbie?”.
L’uomo mi squadra e poi, con una specie di sorriso, solleva con delicatezza il lembo di una delle pezze di cotone. Sul fondo coperto di segatura sono accovacciati fianco a fianco due uccelli dal piumaggio candido, le piccole teste rintanate. “Colombe per gli sposi”, dice l’uomo lasciando ricadere il lembo della coperta. “Se volano lontano porta fortuna”. 
Ringrazio l’uomo e tirando in modo matto dalla marlboro mi riprometto di non dimenticare a nessun costo d’annotare il dettaglio delle colombe.
Anzi, mi appresto a tornare dalla mia donna per rivelarle cosa ho visto nelle gabbie quando me la trovo di fronte con la faccia feroce.
“Dove ti eri cacciato?”, è tutto quello che riesce a dirmi mentre agita il ventaglio a tutta birra. “Volevo presentarti a zia Caterina e zio Biagio Cinquepance e, brutto traditore, a un certo punto non c’eri più”.
“Mi sono allontanato di forse venti passi. Volevo solo vedere cosa c’era sotto le coperte. Lo sai che sono curioso.”
“E poi” dice lei “almeno la giacca potevi mettertela. Ti stanno guardando tutti”.
“Si vede che son bello”, dico io aspirando in una sola boccata da drago quanto resta prima dell’anello di carta con la scritta marlboro.
Perché la mia donna, con tutto che è una bravissima ragazza, quando si tratta di navigare nella sofferenza perde subito la bussola.
E anch’io, ammetto che mi sono innervosito.
Però è stata solo una fatalità se il mozzicone, rotolando lontano sull’asfalto rovente, ha fatto prendere fuoco alla pezza di cotone colorato.
Allora dovevi vedere il putiferio che non si è scatenato. “Bruciano le colombe” si è messo a urlare l’uomo in gessato tabacco deputato a custodire le gabbie.
“Al fuoco” gridavano le signore sotto il sole a picco, ed è stato Achille in persona a spegnere l’incendio rovesciando l’acqua dei vasi di fiori sulle coperte in fiamme. Solo due colombe si sono salvate, e la gente pensava che fosse stato un attentato di qualche famiglia rivale per rovinare la festa.
“Chi è stato l’infamone?” gridavano fissando uno a uno gli invitati i fratelli giovani della Frenci. Avevano gli occhi fuori dalla testa, e se sono riuscito a tornare a casa è solo perché nessuno ha visto di persona chi ha appiccato le fiamme.


Enrico Brizzi


Vedi +

Smemoranda 2006


Vedi +