Garibaldi Cocco Bill

di Antonio Faeti su 16 mesi - Smemoranda 1983





Con Giuseppe Garibaldi ho aperto un contenzioso di notevoli proporzioni che rimase immutato, e anzi si nutrì di nuove ragioni e si arricchì di toni polemici durante tutta l’infanzia, per sciogliersi, poi, e trovare quasi un’onorevole composizione, alle soglie dell’adolescenza. A tanti anni dalla conclusione della vertenza, posso tranquillamente affermare che Giuseppe Garibaldi era del tutto estraneo alle gravi accuse con cui io lo investivo. Intanto, mentre io lo chiamavo in causa con precise responsabilità, lui era già morto da più di sessant’anni, poi, come riuscii a scoprire quando, finalmente, esaminai con maggiore serenità i termini della questione, devo riconoscere che non aveva commesso alcun torto ai miei danni. Si trattava, semplicemente, di un equivoco storico-visivo, ovvero di un grave errore interpretativo in cui ero incappato a causa delle continue sollecitazioni figurali collegate all’Eroe e al suo Mito. Tutto cominciò con un compagno di scuola (tutto comincia sempre con un compagno di scuola: nella Bibbia, nell’Odissea e nei romanzi degli “scrittori da premio”) che rese esplicita ai miei occhi, e pubblica nei confronti degli altri compagni, la tragedia di fondo su cui si trascinava la mia vita di bambino. Sì, lo confesso, ero un vile. No, non ci sono attenuanti: ho letto con gioia le giustificazioni offerte in questo trascorso decennio, dalle femministe, ai bambini pavidi, ma segretamente non mi convincono. Grazie, dico loro, grazie di cuore per aver detto che i maschietti timorosi sono migliori di quelli intrepidi, grazie per aver cercato con generoso puntiglio tutte le determinanti pedagogiche che ci costringevano a imporci modelli di comportamento eroici, ad amare il rischio, a cercare le occasioni in cui misurare il nostro folle coraggio (chi lo possedeva, naturalmente…). Ma resta il fatto che io ero un fifone, un tremebondo, un vigliacchetto. Ero schiacciato dalla recente e pesante eredità del fascismo, tanto per cominciare. Mio fratello maggiore, che era stato addirittura “balilla moschettiere alpino” (oggi, quella definizione mi fa pensare a un guazzabuglio di pagine in cui si siano confusi tra loro molti libri diversi, ma pare che siano esistiti davvero i reparti scelti così denominati) non perdeva nessuna occasione per rammentarmi adunate e sfilate, esercitazioni e marce, fierezze e altisonanti traguardi conseguiti. Poi c’era la falange complessa, lo squadrone confuso dei reduci di ogni guerra, amici di mio padre. Dal vecchio maresciallo Posticchi (Prima Guerra Mondiale) al sergente Felini (Salò, Decima Mas) era tutto un parlottio di sopravvissuti che borbottavano il loro sciagurato linguaggio da raduni militari, in cui si aprivano squarci sonori come: “zirlìo di pallottole” (lo giuro: proprio “zirlìo ai pallottole”) o “musica della mitragliatrice” o “suono delle schioppettate”. E io, poveretto, in disparte, a immedesimarmi, a chiedermi cosa avrei fatto al posto loro. E a fuggire: via per le “doline carsiche” (o giù di lì) per le “ambe selvagge”, per le “mesas” spagnole. Sono scappato praticamente da tutti i campi di battaglia e ho patito fino all’ultima scaramuccia raccontata da quell’alpino (altro amico di mio padre) che era tornato congelato dallâ”ansa del Don” e zoppicava qua e là per casa sempre in cerca di pentoloni di acqua bollente, per sbrinarsi i piedi, credo. Con la Resistenza non mi era andata meglio: i nemici di mio padre, i partigiani, crescevano a vista d’occhio, via via che la guerra si allontanava. Quelli me li andavo a cercare da solo: ed erano sempre racconti di gappisti, di agguati nel buio, di uomini coraggiosissimi (ecco, di nuovo) contro squadroni di SS col teschio sul berretto. Non sapevo proprio a chi rivolgermi, quando trovai un lenitivo, un tranquillante che mi diede un po’ di effimera consolazione. Avevo letto, nella riduzione dell’Iliade fatta per i bambini da Gherardo Ugolini, che Achille era nascosto fra le donne prima di venir scoperto e reclutato da Ulisse. Così decisi di sparire anch’io fra le innumerevoli (e bellissime) colleghe di ufficio della mia sorella maggiore, pensando che nessun Nessuno mi avrebbe mai trovato. Stavo lì, coccolato da quel tipo di fanciulle che erano in voga negli Anni Trenta e avevano fortunatamente resistito fino agli Anni Quaranta, con le gambe e i seni voluti da Gino Boccasile nella “Signorina Grandifirme”, e quindi proprio abbraccianti e coprenti al posto giusto. Ed ero quasi felice perché, pur godendomi le carezze che impunemente si potevano riversare su un fratellino piccolo e ingenuo, mi sentivo Achille. Ma quel compagno di scuola e Giuseppe Garibaldi distrussero il fatiscente equilibrio mitologico-libidinale che ero riuscito a costruirmi. Un giorno, nel cortile della scuola, mentre, profittando del numero enorme di alunni allora confinati nella stessa classe (eravamo 53, in quarta) sgusciavo via per evitare il mio turno al salto in alto (io scappavo sempre: nelle trincee altrui e nelle ore di ginnastica mie) quel mio compagno mi urlò: “Marmotta!” e la mia inclinazione per la fuga passò dal privato al pubblico. Eravamo tanti, per fortuna, e la clamorosa sanzione della mia viltà fu presto scordata tra le risse, il Giro, la fine del Campionato, le sassate fra alunni provenienti da strade fra loro rivali (io abitavo in una strada “neutrale”, non tiravo sassi a nessuno, al massimo ne ricevevo qualcuno vagante, per sbaglio, dall’una all’altra fazione). Fu allora, però, che conobbi “veramente” Giuseppe Garibaldi. Già dall’anno prima occhieggiava, per la verità, dai manifesti e più ancora dalle stampigliature impresse sui muri per la propaganda del Fronte Popolare. Ma, circonfuso dalla stella, pareva più un Santo che un Guerriero e non mi aveva preoccupato. Il brutto fu quando entrai in contatto con i volumoni della sua “Vita” illustrati da Tancredi Scarpelli. Questo disegnatore era un feroce specialista nel genere “eroi possenti e fieri e belli”. Garibaldi lo rendeva, a tempera, più grasso e più alto rispetto alle raffigurazioni della consueta iconografia. E sempre con spadacce e pistoloni e con nemici terrificanti o con morti garibaldini per terra, ai suoi piedi, verdini, color della morte, appunto, come nei disegni per i libri di anatomia. I racconti dei reduci li avevo solo temuti, ma con Garibaldi mi colpevolizzai. Lo pensavo inevitabilmente coraggioso, irriducibilmente fiero e audace e poi, insomma, “Lui” era l’Eroe e io ero la “marmotta”. Notti insonni, sogni interrotti in cui mi svegliavo perché l’Eroe mi urlava: “Marmotta!”, con un vociane che si sentiva nei due mondi, da Calatafimi all’Uruguay. E mi agitava lo sciabolane davanti agli occhi, mi guardava con quel suo barbone biondo, mi annientava con la raggerà di capelli da Cristo mentre picchia i mercanti. Nel sogno, come da sveglio, l’ho sempre chiamato con nome e cognome, non mi sono mai permesso confidenze. Non è accaduto solo a me. C’era un disegnatore, famoso specialmente per le sue tavole “salgariane”, che firmava le sue immagini così: G. G. Bruno. E ho poi saputo che voleva dire: Garibaldi Giuseppe Bruno. Roba da rabbrividire: se fossi stato battezzato anch’io Garibaldi Giuseppe e magari chiamato così, per strada o a scuola, con tutti i miei occulti e palesi timori! Un libro rischiava di annientarmi, un altro mi salvò. Era i “Cavalieri dell’ideale” della “Scala d’oro” della UTET di Torino. Avevo preso a leggerlo quasi solamente perché mi era tanto piaciuto un altro volume della stessa collana: “Luci e ombre della storia”, un testo equanime e riparatore. Infatti, se i coraggiosi potevano piazzarsi sotto le luci della Storia, io mi sarei nascosto nelle ombre: c’era dunque posto per tutti. Fra le pagine del libro “I cavalieri dell’ideale”, o meglio fra le illustrazioni di Carlo Nicco, era poi nascosta una sorpresa davvero salvifica. Una tavola compresa fra quelle del capitolo dedicato a Garibaldi (era un “cavaliere dell’ideale” anche lui, naturalmente) mostrava l’Eroe in carrozzella da invalido, un vecchio disgraziato e imbelle che faceva finta di leggere un libriccino. Dunque non era salito direttamente nel Walhalla, non era asceso in cielo come Remolo, non aveva raggiunto le azzurre praterie di tanti film di cow-boy, cavalcando il suo bianco destriero. Come noi “marmotte” si era anche seduto un po’, aveva fruito di qualche pausa meditabonda, prima del gran passo. Cominciai così a volere anch’io un po’ di bene a Garibaldi. Sì, mi faceva tenerezza per quella sua vecchiaia da Sussidiario o da libro di lettura. Cercai anche di conoscerlo meglio: era un cavaliere dell’ideale che aveva caracollato fra le luci e le ombre della storia. Uno che risponde semplicemente “Obbedisco” crede di aver detto una gran cosa e invece si è lasciato invadere dall’inconscia nostalgia per i tempi in cui era mozzo e diceva tanti “obbedisco” da non poterli neppur contare. E uno che telegrafa ai generali francesi della Repubblica, in fuga per via dei Prussiani: “Disponete di ciò che resta di me” è uno che la mette sul patetico, e son buoni tutti a far così, specie da vecchi. Non lo temevo più, facevo tranquillo la mia parte di “marmotta”, mimetizzandomi nelle perigliose ecologie delle scuole, delle strade, dei cortili. Ma migliorai, anche. Ottenni perfino di essere chiamato a giocare in una grossa squadretta di calcio, roba quasi a livello di quartiere, dove ebbi il ruolo di “terzino di posizione”. Non mi muovevo mai, ero grassoccio, “tenevo la posizione” perché avevo risposto, all’invito, con una parola: “obbedisco” e poi avevo aggiunto: “vedete un po’ voi se c’è qualcosa di utilizzabile in me”. Trascorse del tempo: negli Anni Cinquanta, in un fascicolo speciale del Calendario del Popolo vidi un disegno di Ampelio Tettamanti (che nomi, che firme ha avuto sempre l’epopea figurale dei garibaldini…) in cui Garibaldi mangiava un panino con formaggio in una stalla, mentre il Re pranzava in un Palazzo, dopo Teano, con i suoi ufficiali. Lui in una stalla, l’altro nel Palazzo: avevo capito! Era un “dandy”, Uno dai bei gesti, uno col gusto della provocazione, come Carmelo Bene e Arbasino. Ieri sera la televisione ha detto che Garibaldi piace a tutti perché è un eroe moderno. Poveretto, sepolto da una frase simile è poi stato travolto da una frana di analogie in cui non gli si è risparmiato nulla: amava la campagna come Antonio Segni (gulp!), amava la folla come Pertini, era intelligente come Spadolini, coraggioso come Craxi, meditativo come Berlinguer. Dato che c’erano potevano anche aggiungere: raffinato come Pietro Longo, tanto a quel punto andava bene tutto. Povero Garibaldi, non si sopravvive al centenario della propria nascita, figuriamoci a quello della propria morte. Già dai tempi di Carlo Nicco avevo capito che il mio incubo non è Garibaldi. Il mio è un incubo cumulativo: temo tutti quelli che hanno fornito i grandi esempi di eroismo, detesto, in realtà, una cooperativa di bronzi di Riace del coraggio. E invito a cercare veloci e sputtananti centenari: i cento anni dalla fabbricazione della stampella di Enrico Toti, i trecento dallo sfilacciato della miccia di Pietro Micca, i cento dalla camicia “di stoffa garibaldina” di Oberdan. E poi i chiodi della botte di Attilio Regolo, lo scaldino della mano di Muzio Scevola, la tuta di Spartaco, il cerino di Nerone, il numero del “Giornale” di Montanelli da cui Menenio Agrippa lesse l’apologo famoso. Celebriamo le cose, non gli eroi. Sono del tutto guarito anche dai postumi della mia sofferenza di “marmotta” travolta dal garibaldinismo. Ero già convalescente quando mi innamorai di due eroi democristiani degli Anni Cinquanta. E dai nuovi confronti trassi definitivo giovamento. Uno era Pecos Bill e non portava mai pistole (almeno fino agli albi della seconda serie). Era uno che predicava molto e al massimo catturava i cattivi con il “lazo”. Aveva una striscia di capelli scuri che gli attraversava la chioma bionda: una specie di Moro all’incontrario. Credo non sia mai riuscito a farsi la sua amica e compagna Sue (neanche negli albi della seconda serie). E, almeno per come la rendevano i disegni di Raffaele Paparella e Antonio Canale, Sue avrebbe proprio meritato che Pecos Bill fosse meno castigato nei costumi. L’altro nuovo eroe fu Cocco Bill, campione dell’eterno western della parrocchia italiana. Garibaldi? Câè poco da sfottere: là dove si trova ora vorrei potergli mandare una di quelle caricature in cui Craxi veste i panni di Lotar, il negro amico di Mandrake. Sono così tranquillo nei suoi confronti che vorrei offrirgli un risarcimento per le tragedie del centenario. Da cui, naturalmente, non si riprenderà mai più.


Antonio Faeti


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