Huck e John: due storie

di Mario Maffi su 16 mesi - Smemoranda 1995





In una delle pagine più intense delle Avventure di Huckleberry Finn, di Mark Twain, Huck se ne sta sulla zattera che scivola lenta sul Mississippi, e rigira tra le mani una lettera. Ha scritto a Miss Watson dove può ritrovare Jim, lo schiavo nero fuggiasco che per tanti giorni è stato suo compagno di viaggio e d’avventure. 
E’ la cosa giusta da fare. Così vogliono la società e la legge, così vogliono la morale e la consuetudine. Uno schiavo fuggiasco va consegnato al suo padrone. Non farlo vuol dire essere complici d’un crimine. Ma lui ha scritto la lettera, e ora si sente in pace con l’anima e con il mondo. E’ libero dal peccato, può tornare a pregare con sincerità.
Poi, però, comincia a pensare, a parlare fra sé e sé, a ricordare il viaggio lungo il fiume. E gli viene in mente com’è sempre stato gentile e affettuoso Jim – un amico, un fratello, un padre, in tutte le vicissitudini incontrate. Com’era contento, Jim, quando l’aveva visto ricomparire nella palude, dopo la sparatoria. E la volta che Huck lo aveva salvato dicendo agli uomini di non avvicinarsi alla zattera, che avevano il vaiolo, e Jim gli aveva detto che era il migliore amico che aveva al mondo…
Ed ecco lì la lettera, la cosa giusta da fare. Huck la rigira tra le mani perché deve decidere. Alla fine, tira un sospiro e dice tra sé e sé: “Va bene, allora, vuol dire che andrò all’inferno!”. E strappa la lettera.
Parole tremende da dire. Ma una volta dette, son dette, e basta: tanto è chiaro che la via di Huck è quella della cattiveria e del peccato, e allora tanto vale andare fino in fondo, e liberare davvero Jim. Contro la società e contro la legge, contro la morale e contro la consuetudine.
In una grigia mattina di primavera, nel 1913, John Reed se ne sta sulla veranda d’una casa operaia di Paterson, New Jersey, dove è in corso il grande sciopero nelle fabbriche di seta che durerà parecchi mesi. Gli scioperanti sono quasi tutti immigrati italiani, uomini, donne, ragazze, bambini, e i tribunali, la polizia, i mezzi di comunicazione gli si sono scagliati contro come tanti avvoltoi.
Reed è un giornalista di New York, è a Paterson per scrivere un pezzo sullo sciopero. Sotto i suoi occhi, la polizia manganella gli scioperanti, li arresta. L’agente McCormack gli dice di andarsene dalla veranda, di smettere di guardare, di circolare. Reed risponde che ha il permesso del padrone di casa.
L’agente si fa più minaccioso, lo insulta, gli agita il manganello sotto il naso. Infine lo arresta. Il giornalista passa quattro giorni in guardina, osserva il modo in cui gli scioperanti vengono trattati, vede l’entusiasmo che li sorregge. Al processo, è condannato a venti giorni, e in prigione incontra gli operai bastonati e affamati, i leader dello sciopero, i militanti più noti e amati.
E’ uno di questi che dice agli altri: “Ragazzi, quest’uomo vuol conoscere le cose. Ditegli tutto… “.
Fu così che John Reed conobbe le cose, e gli uomini e le donne, e la guerre e le rivoluzioni: a Paterson e a New York, sui fronti di guerra europei, nel Messico di Villa e Zapata, nella Russia di Lenin e Trotzky. E scrisse le pagine – piene di passione e di rigore – de il Messico insorge e Dieci giorni che fecero tremare il mondo.
Huck Finn John Reed, nella finzione e nella realtà: con il cuore e con la mente.


Mario Maffi


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