Il canto della Nuvola

di Enzo Braschi su 16 mesi - Smemoranda 1991





I bianchi lo chiamavano Jack Wilson ma il suo vero nome era Orso-Che-Scalcia. 
Aveva vent’anni ed era un indiano appartenente al gruppo Lakota, ovvero i Teton Sioux, Coloro che abitano la prateria. La sua tribù era quella degli Hunkpapa, la stessa del grande capo Toro Seduto. Ma Toro Seduto era memoria, così come il potere della sua nazione, di tutti gli indiani, uomini senza più radici, senza scopo, senza nulla, senza più un’ombra.
Una settimana prima aveva lasciato la riserva e la strada per prendere gli antichi sentieri dei padri, le piste nascoste, i crinali rocciosi in mezzo agli alberi delle Black Hills, i sacri Paha Sapa, dove da sempre riposavano gli spiriti degli antenati e dove aveva dimora sulla terra il Grande Spirito.
Al tre volte era stato sulle Colline Nere assieme a suo padre per celebrare il rito della Ricerca della Visione e sempre aveva fallito: al digiuno e al pianto, sdraiato sulla nuda terra, nessuna canzone gli era stata suggerita dal vento del nord, nessuno spirito protettore gli si era manifestato per dargli un nuovo nome, come accadeva nel passato ai giovani guerrieri della sua gente.
I Paha Sapa non erano più quelli che il nonno gli descriveva quando da piccolo stava attorno al fuoco con gli altri bambini. Non c’era magia nei “tailings”, i micidiali cumuli di scorie radioattive abbandonate a valle dalla Westinghouse, nei fiumi ammazzati dalle multinazionali, negli scheletri neri degli abeti avvelenati dalle piogge acide, nelle catapecchie senza servizi igienici o nelle vecchie auto o nei cassoni abbandonati che spesso ospitavano i suoi fratelli più miseri.
A tutte queste cose pensava Orso-Che-Scalcia mentre si arrampicava lungo l’Horney Peak, la vetta più alta delle Colline, il centro del mondo per gli indiani, e che una sola delle innumerevoli promesse fatte dai bianchi era stata mantenuta: promisero di prendersi la terra e se la presero. 
Dalla cima ammirò il panorama sottostante. A perdita d’occhio vide le sacre colline distese come vecchi animali prigionieri di un letargo senza fine. Il verde acceso delle valli lontane si separava da quello cupo dei monti come tagliato da una riga netta. Le rocce macchiavano di grigio il manto erboso della Madre Terra. 
Acqua scendeva a sinistra in una bizzarra cascata frantumata da uno strapiombo. Altra acqua si raccoglieva nell’alveolo di un fiume dal disegno tortuoso, scintillante come argento liquido al sole della pura mattina di giugno. 
Il sole gli bruciò la pelle, la luce accecante gli fece chiudere gli occhi. Il cielo era terso come solo sa esserlo il cielo del Dakota durante l’estate. Il suo blu era così carico da sembrare un profondo mare sospeso per aria. 
Sì, lì doveva essere la dimora del Grande Spirito, il padre di tutte le creature, e in nessun altro posto.
Si diede da fare per preparare il terreno come gli era stato insegnato dagli uomini di medicina. Al centro scavò un buco in cui pose il tabacco consacrato, quindi vi aggiunse il sacchetto contenente l’erba ierocloe. Stese poi la salvia, che aveva portato nella sua sacca di tela, perché formasse il giaciglio sul quale avrebbe dovuto stendersi, meditare e pregare fino a che non fosse arrivata la visione. 
Infine tracciò una grande croce, le cui braccia partivano dal buco. Lungo quelle esili braccia avrebbe camminato, supplicando di volta in volta le quattro direzioni perché gli dessero la forza di resistere al sonno, alla fame e al freddo; e sostato al centro per invocare il Grande Spirito affinché gli regalasse una visione.
La prima e la seconda notte le passò così, implorando il Grande Padre, l’orecchio teso a decifrare i rumori attorno a sé, amplificati dall’innaturale silenzio e dalla paura. La sete lo tormentava più della fame e gli venne da pensare a tutta l’acqua del fiume serpeggiante ai piedi della montagna. Un uguale sinuoso serpente aveva portato gli uomini, all’inizio del tempo, sulla terra perché la popolassero secondo il volere del Grande Spirito. Poi venne la terza notte e lo assalì un tremore incontrollato. 
Tutto il suo corpo ne fu scosso e comprese finalmente la propria nullità al cospetto del creato, e si fece umile, più piccolo della più piccola formica, e pianse, dapprima sommessamente, quindi prorompendo in singhiozzi. Con le lacrime che gli rigavano il volto disse:” Padre, ho fallito, ancora una volta ho fallito.
Tu non vieni e io sono sempre più solo…”E si accasciò al suolo. Non seppe quanto restò così, sulla nuda terra, ma d’improvviso vide. Un biancore come di latte, una matassa come di ovatta. Una nuvola, che lo avvolse e così parlò: “La mia storia non è una storia importante, di quelle che commuovono da tanto sono grandi. Sono parte del cielo, così come tu lo sei della terra. E tu ed io siamo la stessa cosa. Oh, il cielo sembra piatto e vuoto, ma in verità è pieno di tante meraviglie e se ogni uomo si fermasse a guardarlo vi scoprirebbe forme, leggi, colori, immagini che nessun altro potrebbe vedere allo stesso modo. Il cielo regala quello che ognuno ci mette di suo. E bisogna anche avere la voglia di inchinarsi ad afferrare un sasso, perché anche un sasso è un universo di storie che appartengono al passato del mondo e degli uomini. Le sue striature sono minuscoli fiumi disseccati, quelle esigue porzioni lisce o avallate, un po’ in salita e un po’ in discesa, sono le sue pianure, le sue valli ombrose e fresche, le sue colline scaldate da un bel sole a primavera, le sue montagne aguzze. Bagna un sasso, lavalo dalla polvere e ti accorgerai solo allora di quale luce possa risplendere. E anche il sasso è fratello, sorella, madre, padre tuo e di noi nuvole, così come lo è l’animale, la pianta, la terra, il fiume, persino il più pericoloso essere strisciante. E ognuno di loro è imparentato con l’altro.
Tu non potresti essere qui, in carne ed ossa, inginocchiato dinanzi a me a sentirmi discorrere se non esistesse tutto questo. Noi tutti apparteniamo al grande ciclo che è anche la tua storia. Tu non sei più solo se pensi a queste cose.
Tale è il potere che ti viene dato, di saperti parte insostituibile di questo ciclo, anello dell’interminabile catena che ti lega al Grande Spirito e al Grande Mistero.
L’uomo bianco ha tutto, è ricco di ogni cosa ma è il più povero degli uomini perché ha perduto questo potere, il solo per cui valga la pena vivere.”
Allo stesso modo di come era arrivato, il biancore come di latte si diradò, la matassa come di ovatta si sciolse: la nuvola sparì. Orso-Che-Scalcia si alzò in piedi, tese le braccia al cielo, inspirò profondamente, e prendendo i fiati con il ritmo che solo la sua gente sapeva, cantò questa canzone: “Non ho padri cacciatori, che a sera siedono attorno al fuoco del campo e raccontano di innumerevoli bisonti abbattuti, la sacra pipa tra le mani, una penna nei capelli puntata alla terra.
Tutto passa, tutto passa. Consumo il mio tempo su sentieri che non percorrerei, forte d’altre strade che non ho. La mia faccia muta col passare delle stagioni, il mio corpo ancora giovane non è più quello di una volta. Tutto passa, tutto passa.
Ma ugualmente alzo al cielo il mio canto, che forse non è bello, ma che qualcosa in me si ostina a ripetere, anche se per la breve durata del fuoco di un acandela.”


Enzo Braschi


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