L’intervistatrice è quasi in ginocchio: “Questa è la prima volta che a una troupe televisiva viene permesso di girare nel backstage di una sfilata, nel pieno svolgersi della sfilata stessa! Una cosa da capogiro, credetemi” assicura rivolta al cameraman che la sta riprendendo.
Lo stilista se ne sta seduto su uno scranno stile impero romano, a dieci metri da me; ma lui non sa che sono qui. Si fa aria con un bouquet di fiori e la guarda storto, mentre tutt’intorno c’è una confusione micidiale. Una musica funebre avvolge imparziale modelle, truccatrici, assistenti e parrucchieri. “Per quello che servo io adesso, potrei starmene a casa” dice. “I miei assistenti sono in grado di dirigere la sfilata da soli. Io il mio lavoro l’ho fatto in questi mesi, oggi sto solo titillando il mio narcisismo.”
“Ma certamente!” annuisce l’intervistatrice. “Il suo lavoro infatti… bla bla…”
Mi sposto a destra perché uno stand carico di appendiabiti mi disturba la visuale, qui dietro la parete mobile che ho scelto come nascondiglio. Tiro fuori l’automatica e avvito il silenziatore sulla canna.
“Dei materiali non parlo” sta blaterando lui. “Si compri un vestito e gli faccia l’autopsia…”
“Oh oh oh!” si sganascia l’intervistatrice.
“… tanto la veste senza il corpo è un cadavere, la spoglia di una crisalide. Io parlo solo di idee, perché lavoro solo su idee.”
Una ragazza sbuca dalla mia parte. Io mi infilo la pistola nei pantaloni, dietro la schiena, e le sorrido benevolo, ravviandomi la chioma completamente bianca. Lei ha un paio di occhiali molto sexy. Lancia un’occhiata incuriosita al mio vestito, che qui non c’entra nulla; poi prende tre giacche e se ne va.
“In realtà questa intervista è inutile” vaneggia lo stilista. “Oserei dire anzi che anche la sfilata è inutile.”
L’intervistatrice è soggiogata: “In che senso?”.
“La mia idea della donna è riassunta dalla musica che stiamo ascoltando. In questo momento la passerella dovrebbe essere vuota, l’aria riempita da queste armonie. Esse sono la donna.”
Io contemplo una bionda nuda che mi dà la schiena. Non sono tanto vecchio da non apprezzare. Credo che le ragazze mi piaceranno fino alla fine.
“Quindi per lei Beethoven…”
“Stiamo ascoltando Mahler, non Beethoven.”
La tipa di prima viene di nuovo a servirsi nel mio angolino, mi osserva per un attimo e si incammina, carica di giacche.
Mi guardo il dorso della destra, vedo una macchia scura che ieri non c’era. O forse c’era già? Ormai sono pieno.
“Voglio una donna che assorba ogni conflitto e lo travolga in una sintesi superiore” declama lo stilista, agitando il bouquet. “Sono eccitato dal puro corpo, ormai. Il corpo della donna, mia cara, non mi sovviene il suo nome… il corpo nella sua ambiguità sospesa fra yin e yang…” Di colpo si interrompe e scaglia il bouquet addosso a un essere geneticamente indefinibile, in procinto di uscire in passerella, colpendolo in pieno dietro la nuca. “Porca miseria, ma non vedete com’è messa quella manica?” L’esclamazione provoca l’intervento di un nugolo di assistenti che placcano la modella e la sommergono di cure e affanno. “Be’, direi che può bastare” borbotta lui, rivolto all’intervistatrice.
“Una conferenza in diretta” gorgoglia lei, entusiasta. “Un’idea di moda metafisica che ormai si confronta con il cosmo, con gli antichi miti, fra le note incalzanti di Strauss!”
“Signore Iddio!” geme lui alzando le braccia. Si tira su, fa una battuta abbastanza idiota sulla sua “prostata prostrata”, facendo ridere tutti, e si avvia proprio dalla mia parte.
Apre una porta alta e stretta e ci sparisce dietro. Mi guardo intorno, aspetto un minuto e lo seguo.
Il bagno è rivestito di piastrelle con il logo dello stilista elaborato in motivi floreali, ma curiosamente la puzza non è molto diversa da quella che si gusta in Stazione Centrale. Dietro una porticina color crema sento sospiri e imprecazioni. Appoggio la mani a un lavabo e mi guardo allo specchio, negli occhi arrossati, persi fra le rughe e le pieghe della pelle. Poi lo sciacquone viene tirato.
Lui esce e mi guarda prima i calzoni poi la faccia, sobbalzando.
“Oh, è lei” impallidisce. “Ma come ha fatto a entrare?”
“Sono i vantaggi dell’età” rispondo, facendo il modesto. “No, togliti dalla testa l’idea di strillare. Mahler non gradirebbe.”
“Cosa vuole? Non credo di… dovervi più niente, ormai. Ho pagato tutto.”
“Ho paura che i miei committenti la pensino in un altro modo.”
“E mandano qui lei, oggi, per parlare di soldi?” L’espressione sulla faccia scheletrica dello stilista è addirittura scandalizzata. “Siamo impazziti? Con quel vestito, poi!”
“Temo che non sia più questione di soldi” rispondo. Tiro fuori la mia amica e gliela punto contro.
“Un momento!” alza la voce lui.
“Sst!” faccio io, portandomi l’indice alla punta del naso.
“Un… un momento” ripete sussurrando, e muove tutt’e due le mani come per dirmi di non perdere la calma, gli occhi che rimbalzano veloci fra me e la pistola. “Dica a… a quei signori che non è questo il momento di chiedermi altri soldi!”
Scuoto la testa, lui s’infervora.
“In questo periodo io liquidi proprio non ne ho e…”
“Non c’è più tempo.”
“Ma no, no!” insiste. È strano, ma sento che se non avesse davanti un uomo vecchio come me si comporterebbe in un altro modo – forse griderebbe, scapperebbe, non lo so, ma sono sicuro che qualcosa in me gli toglie le forze, lo svuota. Lui adesso sa che morirà, e basta. Non è la prima volta che mi succede di pensare questo. In un certo senso, passati i sessanta sono diventato molto più efficiente di prima.
“Mettiti in ginocchio” ordino, con voce tranquilla.
Lui gesticola, disperato, alza gli occhi al cielo, obbedisce e intanto comincia a piangere. Non lo faccio inginocchiare per umiliarlo, ma perché è più sicuro così. Non provo odio e nemmeno disprezzo per lui. Sotto la giacca e il maglioncino attillato il suo corpo è così magro da farmi pensare che potrei mancarlo.
“Lei non… non può fare questo… non può uccidermi adesso! Io ho ancora un sacco di cose da fare! Io sono giovane!”
Sorrido. Lui guarda i miei capelli bianchi come se avesse fatto una gaffe, e sporge le mani con i palmi rivolti verso di me.
“Non mi fraintenda, non sto dicendo che è questo che mi dà il diritto… ma… Io non ho finito, capisce? Non sono pronto! Non è possibile crepare per una schifosa questione di soldi, dio santissimo!”
“I soldi sono sempre un problema” mormoro, ma sto pensando a me, non a lui.
“Devo aprire una nuova società!” continua lo stilista, in ginocchio a mani giunte, e ormai è come se recitasse un rosario. “Devo pensare a mia madre, capisce? Ho tre pastori alsaziani che mi aspettano a casa, e un compagno che mi vuole bene! Non è una relazione d’interesse, è amore vero! La mia evoluzione come stilista è appena iniziata! Io devo lasciare qualcosa al mondo… qualcosa di me, ma quello che ho fatto finora non basta, non basta! Cerchi di capire, la prego… la scongiuro! Io do lavoro a tante persone! Non ho mai fatto del male a nessuno! Ho ancora tante cose da fare, ma così tante, così tante… voglio tornare nel paese dove sono nato, voglio rivedere quel portone, se c’è ancora, e il mio lago, e mia zia ha in cantina la mia vecchia bicicletta! Ho cominciato a scrivere un romanzo!”
Sparo tre colpi al torace e l’uomo si affloscia come un burattino a cui hanno tagliato i fili. Mi guarda e apre la bocca come per dire ancora qualcosa, poi abbandona la testa sul petto.
Ecco.
A posto così.
Non so se ho mai provato piacere a uccidere, quando ero giovane. Non me lo ricordo, ma credo di no. Non so se ci sia qualcuno al mondo che gode a uccidere. Può darsi.
So che adesso, come sempre, c’è un minuto in cui mi sento un vegetale, forse un minerale, e chiunque potrebbe venire qui e farmi saltare la testa, ma nessuno si è accorto di niente. Poi il minuto passa, e io rientro in me, nel mio corpo che è invecchiato senza crederci, quasi con vergogna.
Svito il silenziatore e me lo metto in tasca. La pistola è calda, me la infilo dietro la schiena, sotto la giacca. Prendo lui sotto le ascelle e lo chiudo nel cesso, è quasi senza peso, tutto testa come un bambino.
Esco dal bagno. Nessuno mi guarda e io punto tranquillo verso la sala. Al momento di uscire vedo la ragazza con gli occhiali e le sorrido. Lei mi ferma:
“Scusa, ma dove vai?” chiede, in tono severo, e viene decisa verso di me.
Sento lo stomaco contrarsi e faccio scivolare la mano dietro la schiena, ma lei me la prende, mi raddrizza le spalle e la cravatta, e spolvera una manica.
“Ma è un’idea del regista, di farti uscire con le altre?” chiede.
Annuisco. Non mi sembra di avere alternative. Mi accodo a una giapponese che ha in testa un’acconciatura alta mezzo metro ed esco sulla passerella.
Il mio ingresso viene salutato da un misto di risa ed esclamazioni di stupore, che sfociano in un applauso. I flash dei fotografi sparano a mitraglia.
Se devo dire la verità, sono un po’ emozionato. Non sono cose che capitano tutti i giorni, queste! Cammino dietro alla giapponese, cerco di darmi un’aria disinvolta. Sorrido alle ragazze stupite che incrocio nella mia passeggiata in passerella. Nel parterre noto facce sconcertate e divertitissime. Mi sembra di riconoscere Bruce Willis, il sindaco e più in là Lauren Bacall… ma forse Lauren Bacall è già morta, non sono sicuro. Un indiano con la barba sta dormendo. Tre tizie sedute in tre diversi posti, in prima fila, scuotono la testa indicando il mio vestito.
Arrivo in fondo, faccio un saltello e scendo dalla pedana in un diluvio di applausi, stortandomi una caviglia. Sono già all’uscita quando il primo urlo dal backstage disturba l’adagio di Mahler. L’hanno trovato.
Scivolo fuori, senza fretta. La serata è fresca e la città mi accoglie con i suoi rumori. L’auto mi aspetta là, appena oltre il giardinetto dove dei bambini fanno un gioco che non capisco. Dentro sta scoppiando il putiferio.
Mi asciugo il sudore con la manica della giacca, prendo un bel respiro e mi avvio.
Non ho paura. Non penso più, come una volta, che dovrei cambiare mestiere. Non penso più a niente, ormai.


Raul Montanari


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Smemoranda 2006


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