Il parco sotto casa

di Enrico Brizzi su 16 mesi - Smemoranda 2000





“Là dove c’era l’erba ora c’è una cittààà-à-à-à-à”, cantava il Molleggiato sconvolto dall’espansione edilizia dei sixties che s’era mangiata i campi dietro casa. Sarà anche andata così, ma del mio quartiere come rigoglio d’orti e canali a cielo aperto non posso avere alcun ricordo. Il quartiere l’ho conosciuto, poppante scarrozzato in passeggino, abbastanza simile a come lo si può vedere adesso: anche vent’anni fa era protettivo e indolente e adagiato sotto la linea variabile dei colli. Anche vent’anni fa i parchi erano gli stessi di oggi, protetti da staccionate e catene, irti di cartelli che vietavano questo e quello, piccoli appezzamenti di libertà baciati dal sole ritagliati nel latifondo delle proprietà private. Gli spazi erano gli stessi, i confini altrettanto aggirabili e scavalcabili anche dopo l’orario di chiusura, però la percezione era assai diversa. Intanto io ero piccolo, e a quei tempi in cui gli estranei da quindici anni in su parevano tutti adulti sentivo una certa componente di rischio ad affiancare pedalando sul biciclo le tribù di adolescents lungicriniti addossati alle panchine a perder tempo. Voglio dire, avrebbero potuto rapirmi. Oppure appetivano la mia splendida atala da juniore laccata bianco e arancione. Cosa credete, régiz, l’avevo capito e non ci cascavo: se le poche ragazze del gruppo mi sorridevano era chiaramente per farmi avvicinare e prendermi in trappola. In fondo preferivo gli sguardi stolidamente duri dei maschi in clark’s e giacchetto jeans. “Un giorno forse diventerò come loro”, mi dicevo allargando le curve, sollevando piccoli sbuffi di ghiaia in privato segno di sfida. “Un giorno passerò anch’io il pomeriggio a buttar fuori il fumo dalla bocca, a guardare storto chi passa e si fa gli affari suoi”. (E poi c’erano i cani! “E’ buono, è buono”, urlava la padrona da una distanza pazzesca mentre Ringo o Cuma o Black coprivano in volo lo spazio e mi venivano a ringhiare troppo vicino ai polpacci morbidi ancorché tesi per lo sforzo della fuga…) Entrare nella riserva vegetale di giorno era eccitante la sua parte, ma non ero ancora così suonato da spingermi oltre il buco della rete al chiarore selvaggio della luna. Poi venne l’età dell’offensiva, arrivarono le guerre civili a colpi di bastone, le lance a punta rossa affilate con le schegge di mattone trovate in giro; durò forse l’arco di due estati, e il parco sotto casa fu come la zona universitaria durante le manifestazioni dure dei Settanta, devastato dai tumulti e dalle cariche di noialtri impuberi. Sui muri di cinta e sui cartelli, intanto, fiorivano scritte a bomboletta aggressive e incomprensibili: l’unica cosa che si capiva erano i piselli giganti disegnati col gesso e gl’incitamenti al Bologna FC firmati coi nomi delle bande curvaiole. L’età vischiosa dei primi baci conferì al parco nuova dignità, e cominciai a pensare che quelle ubertose pendenze avessero un potenziale pressoché infinito: se la mia giovane amica ci stava, se acconsentiva a schiudere le labbra era merito del parco. La prova? Mica mi aveva mai baciato nessuno, alle scuole Annibale Carracci o al catechismo o al centro d’addestramento tennis. E invece, varcato mano nella mano il magico cancello tutto diventava possibile e finalmente mi pioveva addosso la giusta luce di latin lover irresistibile. Nei mesi d’acerba depressione ginnasiale seppi per certo che sarei morto suicida come tutti quelli che m’apparivano i migliori: non desideravo altra sepoltura che una lapide spartana piantata nella terra tenera, all’ombra dei cipressi che bordano il lato sud del parco. Poi conobbi Roadrunner nella versione dei Sex Pistols, il lato notturno della mia città e la pienezza della Teenage. Poi conobbi Londra e Berlino dal vivo, le emozioni decaffeinate dell’università e la sensazione di pienezza che provo tuttora a girare in vespa anche quando fa freddo e ti potresti perfino prendere un malanno. Poi conobbi un modo diverso di sentire le cose, fui iena e torello e camaleonte e dal parco sotto casa per qualche anno mi allontanai. Ci torno in primavera con gli amici di allora e quelli nuovi, a calciare un pallone, a parlar di Coppa Uefa e nuovi punti di vista sul millennio che aspetta dietro l’angolo. Ci tornerò d’estate col mio amore che su quest’erba non si è seduta mai: sarà un bel tornare, e quando alla fine saremo tranquilli e vicini potremo baciarci coi baci che so già diversi da tutti quelli che io Ð e il parco sotto casa Ð abbiamo conosciuto finora.


Enrico Brizzi


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