Il posto dove nasce la nebbia

di Enrico Brizzi su 12 mesi - Smemoranda 2002





C’erano una volta tre ragazzi, tre amici che amavano la musica di Television e Jane’s Addiction. Se la memoria non m’inganna, giurerei che i nomi dei tre amici erano Giancloro, Florestano e Senzombra.

Un venerdì di settembre i tre ragazzi che amavano la musica di Television e Jane’s Addiction, stanchi di bazzicare i pub e i centri sociali della città in cui abitavano, decisero di fare una gita altrove.
“I parenti mi lasciano la panda fino a domenica sera”, annunciò Florestano. Sdraiato a braccia aperte sul tappeto della sua stanza di studente, gli veniva fuori una voce nasale e affaticata. “Sul tavolo c’è una mappa della regione. Sorteggiate la meta, fratellini”.
Senzombra sfilò una matita dall’astuccio del padrone di casa e, sotto lo sguardo attento di Giancloro, la abbassò alla cieca sulla mappa.
Il destino, uno sgorbio frattale sfumato di grafite, indicava come meta del weekend la tetra città di Settecamini.
“La sorte dice Settecamini…”, annunciò Senzombra col tono di un uomo in credito con la vita.
“Provincia di Settecamini, forse…”, suggerì Florestano dal tappeto.
“No, no” s’affrettò a dire Senzombra. “Come il comune amico Giancloro può testimoniare, la matita è piombata dritta dritta sul capoluogo”.
“Secondo me”, insinuò Florestano “hai fatto apposta”.
“Io mi rifiuto”, tagliò corto Giancloro. “La mia religione mi impedisce di passare un weekend in quel buco puzzolente di zuccherifici e raffinerie”.
“Eh no, fratellini”, insorse Florestano issandosi a fatica su un gomito. “Adesso ci andiamo. Nel preciso istante in cui ci siamo affidati alla matita, le abbiamo completamente delegato la scelta e oramai non possiamo fare altro che ubbidire”.
“Sta scherzando, cara?”, chiese Senzombra con la sgradevole sensazione di un diniego in rapido avvicinamento.
“Non che la vecchia Settecamini mi mandi fuor di melone, ma la nostra volontà non conta più nulla”, si rinserrò Florestano, il collo improvvisamente molle e squamoso. Da dentro il guscio che l’aveva trasformato in una gigantesca testarda tartaruga, disse ancora: “La matita ha deciso per noi”.
“Io Settecamini non la tratto neanche coi guanti”, disse risoluto Giancloro. “Vacci tu con la tua cavolo di panda, se vuoi”.
“Amico mio”, disse Senzombra carezzando paziente il bordo del carapace “lo sai quanto me che Settecamini è, con un considerevole distacco, la città più brutta della zona”.
“Secondo me non è nemmeno una città, quella”, rincarava la dose Giancloro da dietro la scrivania. “È un agglomerato industriale. Meglio ripetere il sorteggio”.
Allora Florestano mise fuori, timido e lentissimo, la grossa testa da centenario. “Non vi piacerebbe andare sul delta del Granfiume?”, azzardò con voce cavernosa. Se lo guardavi bene lo capivi, in che senso si avviava a riprendere sembianze umane. “Potremmo caricare la bici sul portapacchi della panda”, riprese, compresso di buona volontà. “Ci pensate? Potremmo mangiare in una cattiva trattoria neanche troppo economica”. Oramai non si distinguevano più nemmeno le scaglie del guscio. “E quando si fa sera, che ne dite di contemplare i trampolieri che s’alzano in volo contro il disco rosso del sole lanciando versi malinconici?”
“Sul delta ci vengo di gran lunga più volentieri”, disse Senzombra. “Però tu devi promettere che non ti trasformerai mai più in quell’orrenda tartaruga”.
“Non faccio apposta”, si lagnò Florestano con occhio pentito. “Il testugginismo passeggero è l’unica controindicazione delle pillole che prendo per dormire”.
“A me va bene tutto tranne Settecamini”, mormorò Giancloro. “Eppoi si dice in giro che il delta fa una gran tendenza, quest’anno”.

Partirono la mattina presto.
Florestano guidava. Senzombra studiava la mappa e inseguiva le frequenze delle onde corte. Giancloro dormiva seduto dietro.
“Senti qui che gemma” disse Florestano quando i colpi elettronici di grancassa lasciarono posto alla descrizione di un ragazzo dalla faccia triste e solitaria deciso ad abbandonare la cittadina natìa. “I Bronski… erano secoli che non li passavano alla radio”. 
“Vuoi del caffé?”, domandò Senzombra sfilando il thermos dalla bocca dello zaino. “Ci ho messo dentro due dita di grappa”.
“Mezza tazza, giusto per sentire il sapore”, disse Florestano senza distogliere lo sguardo dalle cose della strada. “Certo che potevate portarla anche voi la bici, eh?”
“Restiamo seri”, raccomandò Senzombra. “Lo sai che non siamo dei gran ciclisti, noialtri”.
Dalle piccole casse della panda, adesso Jimmy Somerville gridava incontrastato tutta la pena del giovane paesano gay.
“Ehi ragazzi”, biascicò Giancloro con l’accento d’oltretomba. “C’è anche gente che dorme, in questo cazzo di condominio”.

Sul terrapieno la terra era impregnata d’acqua, affondava sotto il peso della panda e formava suole supplementari sotto le scarpe di Giancloro e Senzombra che s’erano avventurati a piedi verso l’argine. “Vieni fuori, carogna!” urlava Senzombra all’indirizzo dell’amico pilota chiuso nell’abitacolo “scendi anche tu e combatti da uomo”. Adesso anche Giancloro affondava i piedi di proposito per raccogliere più fango sotto le suole delle vecchie adidas. Quando calciarono l’aria verso la panda, i grossi pezzi di terra che il sole fioco non era riuscito ad asciugare volarono in parabole strette verso il cofano, contro la portiera dietro cui stava rifugiato Florestano.
“Sono disarmato”, gridava quello. “Lasciate che esca, almeno”.
Da fuori radunarono altro fango con le suole e, i volti accesi da qualcosa che somigliava a un sorriso, insistettero nel bombardamento.
“Adesso basta”, urlò l’amico pilota da dietro il parabrezza quando uno dei giganteschi sottoscarpa esplose contro il finestrino in un tripudio di melma e cannucce semirigide e fili d’erba. “Basta o giuro su mia madre che vi lascio a piedi!”

“Tregua, tregua!” si sbracciava Giancloro in piedi sull’argine. Dei modesti vapori in fuga dal letto del fiume gli s’alzavano tutt’attorno, facendolo apparire una specie di druido di nuovissimo modello. “Venite qui. Scommetto che non avete mai visto tanta natura tutta in una volta”.
“Per forza”, disse Senzombra andando a raggiungerlo mentre Florestano arrancava attraverso il terreno spugnoso. “Tutta la nebbia che scende sulla pianura nasce da qui”.
“Quale imprescindibile poesia”, sospirò l’amico pilota appena fu in mezzo agli amici, ritto sulla massicciata che faceva da argine. “Non pare anche a voi d’essere nelle terre del voodoo?” Poichè nessuno rispondeva, “Se vi svegliaste all’improvviso in questo punto preciso”, azzardò “non giurereste di trovarvi sulle rive del grande padre Mississippi?”. Il silenzio del Delta gli rispose ancora una volta, così Florestano calciò l’aria per liberarsi dagli stivaletti di fango messi assieme nei pochi metri che li separavano dalla panda. Simili a frammenti d’uno stampo, volarono in più direzioni, incresparono la superficie scura dell’acqua in cerchi distinti.
Dal momento che gli amici non s’importavano di lui, “Nichilismo!”, gridò a un certo punto. Giancloro e Florestano lo videro lanciarsi verso l’acqua: correva di traverso lungo l’argine, con il rischio di restare impantanato in modo critico. Saltellava spigolando verso le acque lente, ma non era lì che voleva gettarsi; puntava un albero spoglio, in distanza, che sporgeva in diagonale dalla parete dell’argine e offriva i rami al Granfiume.
La terra pregna gli franava sotto i piedi, e lui scendeva in diagonale come uno sciatore.
Per un attimo, Giancloro e Senzombra credettero di vederlo scomparire per sempre tra i fanghi della riva.

“Peccato”, disse Florestano lanciando in acqua le pedanine inzaccherate della panda. Planavano nella mezza foschia finché non infrangevano la superficie del Granfiume con rumore di superschiaffo, affondavano lente tra grappoli di bolle.
Dalla portiera aperta, la melodia essenziale di Grinding Halt usciva a contagiare la riva: rimbalzava sui tronchi, si rifletteva nelle pozzanghere, scendeva sul pelo dell’acqua a sfiorare i grumi d’alghe e catrame.

“Entriamo o che cosa?”, domandò Senzombra dal piazzale. Florestano trafficò intorno all’autoradio, diede di chiave alle portiere.
“Questa dev’essere la trattoria di cui ci parlava quella brava tartaruga” disse Giancloro con aria poco convinta. In pantaloni da skate e scarpe di fango, la camicia sbottonata ad eccezione dei tre bottoni più alti, quel ragazzo poteva perfino mettere paura a qualcuno.
I due balenghi poggiati alla croma non smettevano di fissare la mountain bike assicurata al portapacchi. Si riparavano la testa dalla pioggia fina con una gazzetta sventrata.
“Buongiorno”, disse Senzombra. “È ancora aperta la cucina?”
“Qualcosa le daranno”, disse il balengo più magro. “Da dove arrivate, giovanotti?”
“Noialtri?” domandò Giancloro sfilando loro accanto. “Dalla fantasia del demone che ci ha immaginati”, disse. “Come tutti gli altri, d’altronde”.
Scuotendo gocce minuscole dai capelli, i tre ragazzi si fecero largo attraverso il sipario di strisce antimosche che segnava l’ingresso.

Sulla sinistra, di tanto in tanto, s’aprivano scalinate ripide che collegavano l’argine ai viottoli bassi che tagliavano la pianura. Florestano, a forza di spingere sui pedali, ne aveva già contate otto, invase di rifiuti e scritte a pennarello e erbacce.
Giancloro pensava che non era così male, viaggiare sdraiati sul tettuccio. Potevi poggiare la nuca sul parabrezza e guardare il mondo capovolto, oppure scivolare perfettamente orizzontale in gara con le nuvole, o ancora chiudere gli occhi, annullare le sensazioni del corpo e gli amici e la casa lontana, viaggiare lungo l’argine come morto. 
Senzombra guidava la panda dietro l’amico ciclista, lo seguiva verso il ponte di ferro poggiato sui piloni tozzi, una meraviglia d’ingegneria civile che baluginava in lontananza nella luce rada del Delta. Senza bisogno di appaiarlo, aveva capito che Florestano voleva arrivare sull’altra sponda. Anche a lui piaceva l’idea di una méta, tipo immaginare un posto ancora lontano in cui finirà il viaggio e ci si guarderà indietro.
Gli piaceva anche allungare la mano al tettuccio curvo sotto il peso di Giancloro, controllare che il viaggio orizzontale dell’amico procedesse per il meglio.

C’erano una volta tre ragazzi, tre amici innamorati della musica dei Jane’s Addiction, che muovevano in linea retta sul nastro d’asfalto che correva lungo l’argine del Granfiume: Senzombra guidava la panda, Giancloro viaggiava a pancia all’aria sul tettuccio e Florestano adesso pedalava a tutta forza, controllava il respiro, pensava che era bello sciogliere i pensieri nella fatica, diluirli grazie alla distanza, lasciarli cadere nelle crepe dell’asfalto e non girarsi indietro mentre evaporavano al sole del primo pomeriggio.


Enrico Brizzi


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