Il suonatore di genis

di Andrea Vitali su 12 mesi - Smemoranda 2005





Non vedevo il suonatore di genis da dieci, quindici anni e forse più. Probabilmente da quando s’era sposato e se n’era andato a metter su casa, seguendo moglie e lavoro, in qualche località dell’hinterland milanese per affogare nella nebbia e  macerarsi nella inevitabile nostalgia di lago e cime di montagna.
Lo rividi l’anno passato. D’estate. Era un giovedì di luglio, caldo e greve di umidità. Lui stava sulla porta del mio ambulatorio. Erano le diciotto e cinque, al massimo le diciotto e dieci minuti.
Non deve stupire la precisione del ricordo. Solitamente non sono così fanatico. Ma fu proprio grazie all’ora che, nonostante i depistanti capelli sale e pepe, radi ormai, ma pettinati con arguti riporti, un po’ di pancetta occultata sotto una maglietta blu e un occhiale da vista dalla pesante montatura con cui si presentò, ebbi la certezza che si trattasse di lui.
Perché?
Perché era in ritardo, se si tiene presente che alle diciotto chiudo la baracca e me ne torno a casa. 
Notando che avevo le chiavi infilate nella serratura e avevo già dato un paio di mandate si premurò di scusarsi per il ritardo con cui era arrivato in studio. Lo fece raccontandomi il motivo: aveva, naturalmente, perso il treno che giungeva a Bellano due ore prima.
“Un ritardo tira l’altro” pensai.
Niente di nuovo sotto il sole.
E come in un puzzle, la sua storia prese corpo nella mia fantasia, facendo appello ai ricordi della nostra ormai lontana frequentazione: godibile esempio di come il destino si diverta a segnare ciascuno di noi con indelebili tratti che, a un certo punto, diventano carte d’identità morali.
Il suonatore di genis, sulla sua carta d’identità, alla voce segni particolari, non poteva aver scritto che quello: ritardatario. Se per vizio, attitudine caratteriale o, addirittura, necessità geneticamente determinata non saprei dire. Tanto, ai fini della storia, non cambia nulla.
Il genis, probabilmente dal francese gènisse, o flicorno contralto, è uno strumento musicale del cui destino recente so poco o niente.
Ignoro, per esempio,se oggidì nelle bande si usi ancora e segnatamente nelle nostre, di paese.
Si usava senz’altro nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio di quelli Settanta, quando avevo tentato, insieme con quella del calciatore, la carriera del musicante: carriera, come l’altra, abortita malamente, per fortuna della musica in genere e bandistica in particolare.
La scuola di musica, ricordo, fu una cosa seria, il maestro un insegnante severo, che aveva un concetto del proprio ruolo giustamente elevato: così che a volte diveniva impietoso. Teoria e solfeggio per molte sere, un intero inverno; esercizi, nella sede del corpo musicale e a casa, per arrivare, selezionati, all’assegnazione dello strumento.
Già durante questo lungo tirocinio il “non ancora suonatore di genis” ebbe modo di acclarare il suo tratto, giungendo alle lezioni serali quasi sempre dopo il loro inizio. Ma, si diceva, tra noi allievi era quello che abitava più lontano, stando in frazione, e ce la metteva tutta per arrivare in orario. Si presentava infatti quasi sempre affannato per la corsa. Pure il maestro accettava per buona questa giustificazione e non se la prese mai anche se, al termine della lezione, gli imponeva un prolungamento della seduta al fine di recuperare il tempo perduto: col che, ovviamente, determinava un ulteriore ritardo nel rientrare a casa.
All’assegnazione dello strumento, momento topico nella carriera di un musicante, fu come se ci venisse svelato un destino. Sia io che lui fummo relegati agli strumenti d’accompagnamento. Io, al trombone: e anche qui, volendo, potrebbe leggersi un segno indiziario. Lui al genis.
Felici, comunque, di avere per le mani l’attrezzo, cominciammo le esercitazioni pratiche, sia nelle sede del corpo musicale che nelle rispettive abitazioni, scassando i timpani di genitori e vicini di casa.
Se ci sfiorò il rammarico per essere stati esclusi dalla nobiltà del clarino, del saxofono e della cornetta, ci fu di consolazione il pensare che, grazie ai ripetitivi e relativamente facili spartiti, avremmo imparato più in fretta e saremmo approdati prima di altri all’esibizione, con tanto di divisa nuova, in pubblico, che era ormai la meta da raggiungere. A qualunque costo, vorrei dire, e si vedrà il perché.
Sin dalle prove, per lui, cominciarono i guai: guai che io evitai con una furbizia da pavido.
Qualche nota infatti, benché fosse solo d’accompagnamento, bisognava pur soffiarla nello strumento.
Io, sentendomi insicuro e non volendo di conseguenza commettere errori, fingevo: gonfiavo le gote, stringevo gli occhi, corrugavo la fronte come se fossi realmente impegnato allo stremo. Ma disperdevo il fiato dal naso: non un filo d’aria entrava nella canna dello strumento. L’afonia del mio trombone si mascherava, si confondeva grazie al suono degli altri, sfruttandolo. Lui invece, e giustamente, essendo convinto di voler fare il musicante, ci dava dentro e suonava. Ma arrivava, anche suonando, quasi sempre in ritardo. E se nessuno se ne accorgeva durante l’esecuzione del pezzo, o, notandolo, ci passava sopra, diventava evidente invece in chiusura, quando tutti gli strumenti devono marciare con passo sincrono per giungere simultaneamente all’ultima nota. Lì, il suonatore di genis denunciava drammaticamente il suo tratto.
Parapàpàpàpàpà!: il pezzo chiudeva.
E:
“Pà!”, arrivava, una frazione di secondo dopo, con un solitario do, il suonatore di genis.
Più volte, durante le prove e con sempre maggiore irritazione, il maestro l’avvisò che, in pubblico, quella scorreggetta solitaria non doveva assolutamente capitare: quindi, se ancora, durante le prove, fosse successo di nuovo, la pena sarebbe stata l’esclusione dal debutto che si avvicinava e al quale noi tutti neofiti tenevamo come fosse un battesimo.
Poiché tra me e lui non c’era competizione, una sera, dopo l’ennesima prova andata storta e l’ennesima raccomandazione del maestro, il dito indice, minaccioso, che percuoteva l’aria, all’attenzione e all’esercizio, gli confidai il mio segreto: fingere.
Poteva farlo anche lui, perché no?
Si sarebbe salvato dall’incresciosa esclusione.
Poi con comodo, avrebbe corretto il suo difetto. Ma così non avrebbe compromesso il futuro che ormai incombeva configurandosi, se non ricordo male, nella processione del Corpus Domini.
Accettò il consiglio perché le ultime prove andarono bene e non venne più minacciato dal maestro che, anzi, lo elogiò per essersi finalmente emendato.
Ma il giorno della processione successe qualcosa.
Credo, tutto sommato, che tra me e lui ci fosse una sostanziale differenza, questa: mentre io avevo ormai compreso che la mia avventura tra le file del corpo musicale aveva fiato corto e che insomma quella del musicante non era la mia strada, lui invece si era sempre più convinto di avere un futuro col genis in mano. Non aveva senso, quindi, fingere di suonare: era un mentire, prima che agli altri, a se stesso.
Per cui il giorno della processione tralasciò la finzione. Suonò davvero.
E pà, pà, pà, collezionò una serie impressionante di quelle scorreggette musicali che fecero montare il nervoso al maestro e ai suoi compagni di fila.
“Guarda gli altri” lo ammonì la prima cornetta “che chiudono sempre a tempo. Impara!”
Il suo sguardo, invece, si posò su di me. Implorante, da cane bastonato. Anch’io ero tra quegli altri cui lui avrebbe dovuto ispirarsi.
Provai un po’ di vergogna. Mi consolai subito ripensando alla già citata differenza che correva tra noi due.
Lui voleva suonare a tutti i costi.
Io, ormai, non più.
Tanto che tenni duro ancora per pochi mesi, giusto il tempo per reperire un trombone delle mie stesse misure cui la divisa nuova calzasse senza troppi ritocchi, partecipando ad un concerto per la festa del paese, a una festa di santa Cecilia e a un corteo dei Re Magi.
Con lui e le sue imperterrite scorreggette.
Infine cedetti, diedi le dimissioni.
Lui no.
Giocoforza, non lo vidi più con la continuità di prima. Occasionalmente piuttosto, e sempre quando si esibiva la banda. Allora, se, nelle ultime file del gruppo, dove si schierano tromboni e bombardini, lo osservavo e, più che ascoltare la musica, cercavo di capire se fingesse o suonasse davvero.  Mi mancava il coraggio, però, di attendere la fine del pezzo, di risentirlo, solista fuori tempo.
Infine anche lui probabilmente abbandonò la carriera musicale, esausto o forse affascinato da altre avventure o carriere.
Tra questo periodo, ormai lontano, e l’anno passato, quando lo rividi, ci fu però un episodio che merita di essere raccontato. Si colloca negli anni in cui dalla liturgia della messa, dal Padre Nostro in particolare, venne cancellato l’amen.
Ero a messa, una domenica mattina, la messa grande. C’erano, forse, battesimi o comunioni. La folla dei fedeli, che occupava banchi, corridoi e anche lo spazio sul fondo della chiesa, aveva recitato il Padre Nostro, elidendo, una voce sola, l’amen finale, come da direttiva recente.
Uno solo, incurante, sparò, nel silenzio improvviso, un amen gutturale e sincero, che fece trasalire parecchi e parecchi girare alla ricerca del colpevole. 
Io fui tra questi ultimi. Ma, posso dire che me l’aspettavo?
Manco a dirlo, era stato lui, il suonatore di genis. Solitario, ancora una volta, nei suoi ritardi. Gli sorrisi e lo salutai con un cenno del capo. Mi rinviò lo stesso sguardo di quegli anni ormai lontani, abbacchiato e implorante, come quando il maestro di musica lo redarguiva, minacciandolo con l’esclusione dal debutto.
In quel momento mi sentii felice per lui. Percepii, certo anche suggestionato dal profumo d’incenso che invadeva l’aria della chiesa, che prima o poi quel tratto avrebbe fatto la sua fortuna. 
Come perdere un aereo che si sarebbe schiantato o altro fatto di equivalente importanza. Tale, comunque, da dover ringraziare il cielo per quella dote che dai più è ritenuta grave difetto.


Andrea Vitali


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