Il cielo si aprì all’improvviso. Avevamo passato tutta la notte a spiare quei gradini che portavano alla porta dell’osservatorio, ma ogni volta che uscivamo sull’uscio se ne vedevano solo tre. Gli altri, inghiottiti dalla nebbia. Poi, all’improvviso, si vedeva tutta la piana di Campo Imperatore. E il cielo. Il cielo. Limpidissimo, nero, pieno così di stelle. Si poteva aprire la cupola.
Avevo ventun’anni, avevo iniziato da pochissimo a scrivere le Cronache del Mondo Emerso, e da grande volevo fare l’astronomo. Per l’esame di laboratorio di astronomia il mio professore mi mandò assieme a quattro colleghi all’Osservatorio Astronomico di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Avevamo visitato le due cupole, quella col telescopio ottico e quella dell’infrarosso, nel pomeriggio, ma ancora non avevamo osservato niente. Nuvole dappertutto. L’attesa fu snervante.
Era la prima volta che per me la notte era altro dal mio letto o da una festa. Stanotte si lavorava, stanotte si aspettava.
Il suono della cupola che si apriva mi parve il più bello del mondo. Le immagini cominciarono ad arrivare nella sala controllo, una stanzetta con dei pc subito sotto il telescopio, e io non ci potevo credere. Stavo facendo scienza, per davvero, anche se tutto sommato ero solo spettatrice.
Quella notte, il team di ricerca identificò un nuovo asteroide, un NEO, per la precisione, Near Earth Object, uno degli asteroidi che potrebbero entrare in rotta di collisione con la Terra. 2002WP11, si chiamava. Sul sito dell’osservatorio, io e i miei colleghi venimmo citati tra gli scopritori. Ricordo l’eccitazione, la stanchezza, il sonno e quel ronzio, il rumore più bello del mondo, che mi accompagnò anche quando, alle soglie dell’alba, staccai e me ne andai a letto: il rumore del telescopio che nella sua cupola, a qualche metro dal mio orecchio, girava piano tutta la notte. Una notte che aveva avuto un sapore diverso, una notte da astronomo, una notte, purtroppo, rimasta unica nella mia vita.