“I treni hanno qualcosa a che vedere col principio e con la fine” dice Stanlio al grassone, a un certo punto del romanzo Triste, solitario y final di Osvaldo Soriano. Tutto vero, ma io aggiungerei che hanno qualcosa a fare anche con i racconti di storie. E qui mi riferisco non solo ai discorsi che spesso, nel corso di un viaggio, mi è capitato di ascoltare dalla bocca di chi mi stava seduto accanto, ma anche al fatto che ogni volta che parto mi sento più leggera, con la testa sgombra, che per me è la condizione ideale per captare le storie altrui.
Però non sempre è stato così. Quand’ero ragazza, l’intimità forzata dello scompartimento ferroviario mi turbava, e spesso per timidezza mi rifugiavo nella lettura di un libro, cercando di estraniarmi da tutto. Così accadde in quel lontano viaggio in treno da Buenos Aires verso la Patagonia: avevo quindici anni e, come unica compagnia, Resurrezione di Tolstoi, un libro che faceva al caso mio, perché narrava un viaggio di odio-amore verso la fine del mondo.
Si trattava di un treno tartaruga con fermate a raccogliere i bidoni di latte accatastati lungo la ferrovia; col controllore che metteva a bollire l’acqua del mate per tutti; con vecchie che biascicavano oscure storie di luz mala. Tutto era così strano quella notte, con gli scossoni degli scambi come sottofondo; strano e magico, quasi che, abbandonando Buenos Aires, mi fossi lasciata alle spalle la realtà entrando in un altro spazio, simile a quello di un romanzo.
Questo senso di irrealtà era cominciato alla stazione di Buenos Aires, mentre salutavo mia madre. Proprio in quel momento l’Espresso Patagonico entrava sotto la pensilina con un terribile strepito di freni: aveva la misteriosità di una bestia matusalemmica; con un faro rotondo sul davanti del locomotore, che mi faceva venire in mente il sottomarino di Verne. Quel treno mi avrebbe portato dall’altra parte di una pianura sterminata, fino alla casa di mio nonno in Neuquén. Sulla piattaforma aperta dell’ultimo vagone stetti a lungo a guardare la folla che si accalcava sulla banchina. Partivo da sola, e la cosa mi dava un brivido strano di piacere e paura insieme, l’ebbrezza fervida dei quindici anni. Ancor adesso mi pare di ricordare tutta la scena con minuziosa precisione.
Dal treno che cigolando si metteva in marcia, vidi allontanarsi mia madre e Buenos Aires; il mio mondo, insomma. Guardavo le luci della capitale che si faceva sempre più remota, assaporando il gusto amarognolo degli addii, delle persone e delle occasioni che si perdono.
L’avevo già provata quella sensazione di separazione e di estraneità durante la traversata in nave dell’Atlantico, la sera in cui la Croce del Sud fu in vista per la prima volta; con i sudamericani tutti alle murate del ponte a applaudire la costellazione che per loro significava la vicinanza a casa. Lì mi ero sentita precipitare in una dolorosa sensazione di esclusione, percependomi per la prima volta come una “straniera”.
Riprovavo quella stessa solitaria amarezza in quella sera australe sull’Espresso Patagonico, tra il fumo del tabacco nero dei passeggeri e l’odore dell’aglio che le vecchie masticavano con gengive violette. Perché i treni che corrono nella notte possono anche non portare nel paese dei sogni, come succede per Belluca de Il treno ha fischiato. Ci sono treni che si addentrano nel cuore di tenebra dei paesaggi più ostili; come in quella notte fredda che scendeva sulla Pampa, per una quindicenne sola, lontana le millanta miglia dal suo paese lombardo, diretta verso il fin del mundo.
A metà della notte ero già stanca, con tanta voglia di piangere: per lo spaesamento di quella tremenda pianura senza fine, per l’impenetrabilità di quei volti addormentati intorno a me. Ché, al fin y al cabo, non avevo neppure quindici anni, e poche difese per sopportare la solitudine. Così, quando quello sconosciuto tirò fuori da una borsa una scacchiera da dama e mi fece un cenno col dito, mi avvicinai.
Non avevo idea di chi fosse, non l’avevo notato fino a quel momento. Stava seduto in fondo al vagone, al tavolo più vicino alla stufa su cui il controllore scaldava il mate; e nonostante quello fosse sicuramente il luogo più caldo e più comodo dello scompartimento, nessuno gli sedeva accanto. Non so da quanto tempo mi stesse guardando. Aveva un viso di lineamenti stranieri, da tedesco come capii subito dall’accento. Il paltò spigato, con collo di pelliccia; gli occhiali con lenti azzurrate; le labbra fisse in una piega sprezzante mostravano un impressionante brillio di denti d’oro.
Credo che mi avesse invitato perché ero sola e ero bianca.
Giocammo diverse partite, in silenzio. Osservavo le sue mani, pallide, nervose, con qualcosa del ragno. Quién sabe, i ricordi lontani fanno lievitare l’immaginazione… Ogni tanto lo sorprendevo a alzare gli occhi verso un uomo che stava seduto vicino alla porta: un tizio tarchiato e biondo, con una vistosa cicatrice a croce sotto la narice destra. I due avevano l’aria di comunicare silenziosamente con cenni e occhiate.
A una delle tante stazioncine in cui il treno faceva sosta, scesi per sgranchirmi le gambe. L’aria della pampa palpitava di gridi d’uccelli sconosciuti, le ultime stelle brillavano nel cielo dell’alba.
All’imprevista, sulla nuca un soffio di parole: “E’ meglio che non torni a quel tavolo”. Mi voltai spaventata. L’uomo che aveva parlato era alto, magro; una faccia tutta naso, incorniciata da riccioli scuri. Stentai un po’ a capire. “Sai chi è l’uomo con cui giocavi?”. Feci segno di no con la testa. Me lo disse. Dal buio del portico della vecchia stazione vedevo il vagone del treno e il tedesco seduto da solo vicino al finestrino, immobile. E intanto la voce del magro contava di vagoni piombati che avevano traversato l’Europa portando un carico di disperati; fessure di carri-bestiame a cui accostare la bocca per respirare, da cui ascoltare ordini incomprensibili gridati in tedesco; per destinazione, un’oscura stazioncina con un nome mai sentito: Auschwitz. Contava di camere di torture con un medico sadico; e dei denti d’oro del torturatore che brillavano nell’accecante luce dei riflettori.
Il treno fischiò, bisognava risalire. Tutto mi pareva irreale. Rabbrividii, non sapendo più se era per il gelo dell’alba invernale o l’incubo di quel racconto.
Quando mi ritrovai di fronte al tedesco, mi sentii afferrare da una nausea di disgusto. Mi sistemai a metà del vagone, vicino a due vecchie con canestri di polli. Rannicchiata nel mio cappotto bordò, stringendo tra le mani il mio Tolstoi, mi buttai a leggere per tutto il giorno, senza alzare gli occhi dal libro. Ma ogni tanto nella testa mi si accendeva la fantasia; e le mani di quell’uomo tagliavano, sanguinolente; i denti d’oro brillavano beffardi… Qualche settimana più tardi avrei sentito da mio nonno altri particolari: sulla grande casa di pietra nera in cui il tedesco viveva in una vallata deserta, sulla sua guardia del corpo col naso sfregiato, sul grande organo settecentesco che aveva fatto trasportare nel salone principale. Storie che amplificavano l’orrore del racconto che avevo ascoltato in quella stazioncina all’alba. Che fine avrà fatto quell’uomo che mi aveva parlato tremando? Non lo vidi scendere a Neuquén; era già notte… Anche i due tedeschi erano spariti.
Ho ritrovato recentemente lo stesso spaesamento in calle Londres a Santiago de Chile. Per un mese ci avevo abitato, guardando con inquietudine la gelida bellezza della casa di fronte; finché, la sera prima di partire, un amico mi disse: “Qui, durante la dittatura, torturavano, facevano cose terribili ai prigionieri. Ma come, non lo sapevi?”. E, solo a quelle parole, il brivido di oscuri presentimenti e i sogni di sangue che per tutto il mese avevano accompagnato il mio soggiorno cileno si chiarirono.
I treni di adesso non favoriscono i racconti, pieni come sono di viaggiatori silenziosi con gli orecchi tappati dagli auricolari. Comunque io in treno, guardando certe persone con lo sguardo perso nel vuoto, continuo a chiedermi quale storia portino con sé, di che cosa si staranno ricordando mentre viaggiano al mio fianco, poco prima di sparire dalla mia vista; con facce anonime, come la mia per loro, come il viso di quegli uomini inghiottiti dalla notte di Neuquén.