In nome dell’amore

di Giulia Carcasi su 12 mesi - Smemoranda 2006





Niente, non c’è niente da fare: tutto comincia con il nome.
Il nome che ti mettono da piccolo è l’anticipazione di quello che sarai da grande.
Facci caso.
Le ragazze.
Io lo dico sempre:
Monica, Jessica e Ludovica, di certo non manca la fica.
Alice e Beatrice, non sai se ti fanno felice.
C’è una bella differenza tra un nome che finisce in –ca e uno che finisce in –ce, la stessa che c’è tra una ragazza diciamo generosa e una che invece se la tiene stretta.
I ragazzi.
Prendi me: Tommaso.
Tommaso diventa Tommy, che ha la dolcezza della ipsilon finale, alle ragazze piace la ipsilon finale, la scrivono volentieri sui diari in mezzo a un cuore trafitto da un fulmine o da una freccia.
E puoi giocare con le citazioni: “Se non tocco non ci credo.” è il mio motto e la figura del vangelo scompare dietro la mia.
Poi c’è Piersandro, che mi sta a fianco, che mi si attacca come il catrame quando passeggio per la spiaggia. Mi ha preso per suo padre. E vagli a spiegare che io non sono il padre di nessuno, che qualsiasi cosa nasce da me, non è mia: un figlio è un problema da donna, mica da uomo, se Dio fa partorire le donne e permette agli uomini di scappare senza pesi in pancia, un motivo ci sarà. Ma Piersandro non capisce e mi continua a chiedere tanti di quei consigli che alla fine metterò una tariffa a tempo, un consigliametro.
Piersandro è proprio uno sfigato, e infatti ha il nome da sfigato.
Un nome troppo lungo, di quelli che vanno spaccati a metà, come le noci: o lo chiami Piero o lo chiami Sandro. Oppure, come lo chiamano tutti: Triglia.
Triglia se ne sta lì, con gli occhi da pesce lesso e il limone in bocca.
Guarda tutto il santo giorno Angela, lei fa la vita della sorvegliata speciale, con lo sguardo di lui che le sta sempre addosso.
Lei apre il libro e Triglia la guarda.
Lei è interrogata in latino e Triglia la guarda.
Lei si accompagna i capelli dietro le orecchie e Triglia la guarda.
Povera Angela, vive peggio di quelli del Grande Fratello.
Lui non ha dimenticato quello stupidissimo bacio in terza media, al gioco della bottiglia. Toccava a lui girare. Un movimento di polso. La promessa di un bacio che ruotava impazzita sul pavimento, poi rallentava, lenta, più lenta, più lenta… Lei.
Lei che per tutta la sera come le altre aveva guardato me, lei che non aveva come le altre il coraggio di chiedermi un ballo. Angela aveva accettato quel bacio dietro ricatto, perché le altre, stronze dentro, le avevano detto “o lo baci o sei fuori dal gioco”. E Triglia subito lì, con la paletta in mano e il cemento nel secchio, pronto a costruire castelli in aria. Adesso, dopo anni, a lui non resta che guardarla mentre lei infila di nuovo gli spiccioli che la macchinetta del caffè risputa.
“Sembri un maniaco! Smetti di guardarla e parlale.” 
“E che le dico, Tommy?”
“Le chiedi di uscire. La porti al Pincio.”
Se porti una ragazza al Pincio, è matematico che ci sta. Perché quando sarà lì e si darà uno sguardo intorno, vedrà ragazzi e ragazze che si strusciano come gatti e si sentirà esclusa da quelle tenerezze. Si sentirà single in mezzo a tante coppie. Accetterebbe chiunque in quel momento e, guarda caso, in quel momento ci sei proprio tu. 
“Tommy, io non ce la faccio. Ogni volta che parlo con lei mi sento un coglione!”
E poi riattacca con la storia dell’imbarazzo, dell’inesperienza, delle mani che sudano.
“Ancora con questa storia delle mani!”
E poi riattacca con la storia che lei è una ragazza seria, mica come le altre, lei mica vuole una tresca e basta.
“Lo vuoi capire che le donne sono tutte uguali. Basta una giornata per farle innamorare.”
Basta che ti svegli presto, ti fai una doccia di quelle vere, con tanto di sapone piacca cinque.cinque, ti metti la maglietta e il pantalone giusto, quello con la marca scritta in maiuscolo, ti allacci il casco ben bene sotto al mento, salti su, vai sotto casa sua, le lasci una rosa di fronte al portone, un biglietto spruzzato del tuo profumo, quelle dodici parole presuntuose:
“Ti amo come tu vuoi essere amata, come nessun altro può amarti.”
e niente, non c’è niente da fare, quella ragazza crolla ai tuoi piedi.
Perché ogni lei crede nell’amore totale, un amore più grande di quello che ha al momento, un amore raro, prezioso, teorico.
“… come nessun altro può amarti.”
È quel “nessun altro” che fa la differenza, che ti fa sembrare agli occhi di lei come l’unica scelta possibile, l’unica giusta. Tu, l’unico al mondo, anche se siamo sei miliardi di abitanti.
“Ma Angela non è così scema, non ci cascherebbe.” mi ripete Triglia.
Sì, in effetti Angela ha un nome strano.
Non finisce in –ca, non finisce in –ce, non sono mai stato con una che finisce in –la.
Fammi pensare: Carolina, Valentina, Cristina, Giulia, Monica, Ludovica, Francesca, Alessandra, Alessia, Simona, Sara, Chiara, Anna, Laura, Roberta,… No, nessuna Domitilla, nessuna Camilla, nessuna Angela, nessuna che finisce in –la.
Quelle che finiscono in –ina sanno di bambine capricciose, piccole lolite.
Chissà di cosa sanno quelle che finiscono in –la…
Quelle che finiscono in –ina parlano dolci, come caramelle.
Chissà come parlano quelle che finiscono in – la.
“Piersandro, facciamo così. Le dico io di te. Tranquillo.”
“Grazie, Tommy, mi fai un grandissimo favore” e allunga il braccio per stringermi la mano. La sua mano sudata.
“Figurati” e gli scaccio la mano.
“Sei un vero amico.” dice lui sorridendo e mi dà una pacca sulla spalla: parole e contatti che per me non significano niente.

Le accortezze intime di un uomo si vedono in ogni suo gesto, persino da come suona al citofono.
Chi citofona di prepotenza, pigiando sul tasto più del dovuto, non ci sa fare, è un orso.
Chi preme con delicatezza, quasi sfiora, come se accarezzando una spalla cercasse di evocare un brivido, è il genio dei corpi.
Inutile dire a che categoria appartengo, scontato.
Angela scende subito, non mi fa aspettare quel quarto d’ora che una donna fa scontare a un uomo. Un filo di trucco. I capelli lisci, freschi di spazzola. Un pantalone della tuta, una maglietta nera con una scritta argentata in mezzo. Niente scollature, pantaloni scesi, tanga in vista. Un profumo diverso da quelli che conosco. Un profumo che non è profumo, solo odore di pelle e balsamo.
“Ciao Tommaso, che ci fai qui?”
È curioso come pronuncia il mio nome, come lo conserva intero, senza ipsilon finale.
“Mi andava di vederti. È un reato?”
“Penso di no.” e sorride di un sorriso bianchissimo.
“Ti va una passeggiata?” 
Ci si parla bene con Angela, si va ad andatura lenta, per non disperdere le parole tra un passo e l’altro. Mi piace. A volte l’interesse per una persona nasce tutto insieme, dopo anni, soltanto perché un tuo amico è innamorato di lei e ti sei accorto che non hai avuto nessuna che finisce in –la.
“Triglia è scemo. Hai visto come ti guarda? Ridicolo…”
Lei se ne sta zitta, troppo educata per parlarne male.
Ci mettiamo seduti su una panchina di legno scuro e io sto attento a non sporcarmi i pantaloni con la resina che sta lì da secoli.
“Con quante stai adesso?” mi chiede lei e un po’ trema per la risposta.
“L’unica che mi piace davvero non so se mi vuole… L’amo come lei vuole essere amata, come nessun altro può fare.”, quelle dodici parole presuntuose, rispondo, tenendo gli occhi fissi nei suoi, poi li riabbasso, guardo lontano, il parco, le coppie intorno. Mi perdo in un pensiero profondo, un pensiero che non ho.
“Dimmi di te.” le chiedo poi.
“Io non sto con nessuno.”
“Però qualcuno che ti piace c’è.”
“Sì.”
Ecco qua, lo sapevo.
“Posso sapere chi?”
“No.”
“Dai.”
“No, mi metti in imbarazzo.” I suoi occhi si illuminano e io so chi c’è in quella luce.
E già me la vedo nuda, i suoi capelli lisci farsi più crespi per l’umidità di un rapporto, per quel liberarsi di liquidi e respiri.
Lei continua a parlarmi di questo ragazzo misterioso che le piace dalle medie, però le manca il coraggio di avvicinarsi. E lui non lo fa. Dice di essere timida, di avere paura dei “no”.
“In amore puoi essere sicuro di quello che provi tu, ma di quello che prova l’altro mai.” dice a bassa voce, come se spifferasse i segreti del mondo.  
Quanto la fa lunga Angela… Basterebbe dirmi “Sei tu” e sarebbe tutto più facile, più veloce.
Mi avvicino a lei, millimetro dopo millimetro, così si fa, più vicino, in modo che un bacio non suoni una brusca rincorsa. Ci si infila piano piano nei sentimenti dell’altro.
Eccoci, labbra contro labbra, desiderio contro desiderio.
“Tommaso, ma che fai?”
Lei si stacca come se un fantasma ingombrante si fosse messo tra noi.
“Angela, sono due ore che ci giri intorno! È normale, ti piaccio… il ragazzo misterioso… dalle medie… ma non ti devi preoccupare, sta bene anche a me” e faccio per baciarla di nuovo.
Lei si scansa, sorride.
“Ma io, veramente, parlavo di Piersandro.”
Il buio, il freddo, il vuoto, poi il caldo, il rossore, quell’abbronzatura che è imbarazzo: tutte le stagioni attraversano il mio corpo.
La pazzia di un “no” mai messo in conto.
Solo io dico “no”.
Il guaio è che stavolta ce lo siamo detti insieme. Anzi, l’ha detto prima lei.
Questione d’anticipo, l’avrei detto io, un secondo dopo.
Questione di un secondo.

Niente, non c’è niente da fare: tutto comincia con il nome.
Tommy ha la dolcezza della ipsilon finale da scrivere sul diario.
Piersandro è un nome da sfigato, di quelli da spaccare a metà, come le noci: o lo chiami Piero o lo chiami Sandro.
Quelle che finiscono in –ina sanno di bambine capricciose, piccole lolite.
Quelle che finiscono in –la sanno di rifiuto.
Quelle che finiscono in –ina parlano dolci, come caramelle.
Quelle che finiscono in –la parlano a bassa voce, come se conoscessero i segreti del mondo.
“In amore puoi essere sicuro di quello che provi tu, ma di quello che prova l’altro mai.” dice Angela.
Quelle che finiscono in –la non hanno regole in amore, non fanno caso neanche ai nomi.
Quelle che finiscono in –la sono povere pazze.


Giulia Carcasi


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