Quando i poliziotti sono entrati nel giardino, Caio ha sentito un ghiaccio nella schiena. Tanti anni fa ha avuto qualche problema con la legge, furtarelli, roba da poco ormai morta e sepolta, però gli è rimasta dentro un’ansia gelata che gli torna negli occhi e tra le scapole ogni volta che vede gente in divisa. Non ho niente da temere, pensa – ma teme.
“Buongiorno” ha detto il poliziotto più anziano, un marcantonio con il pizzetto spruzzato di grigio.
“Buongiorno.”
“È lei che gestisce tutta la baracca, vero?”
“Sì, qui ho fatto tutto io.”
La baracca sarebbe Inagaddadavida, il parco giochi per i bambini più piccoli che Caio ha aperto da dieci mesi. Qui prima c’erano sterpi e lavatrici abbandonate, una zuffa tra piante secche e ferri arrugginiti: ma appena ci ha messo gli occhi sopra Caio ha capito che poteva diventare un posto felice e anche un affare. Permessi, timbri, bolli, file e mattinate perdute negli uffici, e alla fine al comune gli hanno detto fai pure, provaci. Facendo qualche debito, Caio ha assoldato due cingalesi e ha pulito tutto, ha recintato, sparso la ghiaia e sdraiato un tappeto d’erba a tanto al metro: e poi ha piazzato nel mezzo una grande giostra, cavallucci e astronavi, e giochi a gettone in ogni angolo del parco, e tre altalene, e un gazebo di plastica rossa da affittare per le feste di compleanno. Mancava solo il nome, ma Caio d’improvviso si è ricordato di una strana canzone, forse un po’ cupa, che una volta aveva ascoltato a Radio Rock, mentre era fermo in un ingorgo. Durava un’eternità e si chiamava Inagaddadavida che, così sosteneva il conduttore esagitato, era la storpiatura di In a Garden of Eden, il paradiso terrestre. Era un bel nome, perfetto per dei bambini che ancora non sapevano pronunciare bene le parole e che però avevano belle mamme e soldini da spendere nelle giostre. Caio ha messo all’ingresso del parchetto uno striscione giallo e blu con quel nome buffo e benaugurante.
Nell’aria ora risuonano le note del Valzer del moscerino, spinte da quattro altoparlanti issati sopra a pali di legno. Caio ha una collezione infinita di canzoncine che possono attirare i bambini, e i bambini arrivano sempre più numerosi, certi pomeriggi c’è la fila per salire sulle giostre e sul trenino che corre sui binari, in mezzo al prato. Ogni gettone costa cinquanta centesimi: alla fine è un bell’incasso. Ma non è solo per i soldi che Caio ha messo in piedi questa baracca di luci, suoni e piccole meraviglie. I soldi contano, ma non sono tutto. È che adesso si sente il padrone di uno spicchio di mondo, e gli piace che tutto sia a posto, che almeno lì dentro regni l’armonia. Gli piace vedere i bambini felici, lontani dalla scuola e dai loro soffocanti appartamenti, e le mamme che si rasserenano, perché nel giardino dei giochi non può accadere nulla di brutto. C’è sempre da migliorare, si diceva Caio prima di chiudere i cancelli e andare a dormire; Inagaddadavida deve diventare un luogo perfetto, e forse ancora non lo è.
“Lei sta qui tutto il giorno, vero?”
“Dalla mattina alla sera. C’è tanto da lavorare, c’è sempre qualcosa da aggiustare, e poi devo pulire il prato, togliere le buste delle patatine, le cartacce, le cicche delle mamme. Non sto fermo un momento.”
“E allora, se sta sempre qui, di sicuro avrà visto quest’uomo.”
Il poliziotto più giovane, un ragazzetto con il muso aguzzo da volpe, mostra a Caio la fototessera di un uomo con gli occhi socchiusi e i capelli unti, una crosta sulla fronte e un piccolo sorriso sulle labbra.
“È Teodoro” dice Caio senza esitare.
“Teodoro Vladimic” precisa il più vecchio.
“Gira sempre qua attorno, il vecchio Teodoro. Si lava alla fontanella di via Lanciani e la notte dorme su qualche panchina. Nel quartiere lo conoscono tutti.”
“Il vecchio Teodoro ha trentasette anni, a essere esatti.”
“Be’, è parecchio malridotto.”
“E da quanto tempo è che non lo vede più?”
“Non so, mi sembra di averlo visto anche ieri, o forse l’altroieri.”
“Una signora della parrocchia, una brava donna che gli passa dei vestiti e ogni tanto anche qualche soldo, sostiene che quest’uomo è sparito da un mese.”
“Teodoro è fatto così” dice Caio. “È un vagabondo, magari adesso sarà su una panchina a Parigi o a Barcellona.”
Teodoro è una maledizione, pensa Caio. Sempre con la bottiglia in mano, ubriaco perso. A volte urla come un pazzo nella sua lingua, fa paura. E viene qui, si butta sul prato a dormire, si piscia addosso. La mattina me lo ritrovo buttato tra le macchinette a gettone, o tra i cavalli della giostra, e non si sveglia, non si alza. Ogni notte scavalca il cancello, anche se ci sono le punte, e viene qui a vomitarsi l’anima sua. Io gliel’ho detto cento volte: Teodoro, lasciami lavorare. Ti prego, vai via. Questo non è il posto per te, qui ci sono i bambini, le mamme, le canzoncine. Vai alla stazione da quelli che se ne fregano di tutto, lì c’è la tua gente e passano i volontari con le minestre calde e le coperte di lana. Lui sorride con la sua faccia da ubriacone, mi mette la mano sudicia sulla spalla e mi dice amico mio, che bel giardino che hai, come si sta bene qui, se potessi ci starei tutta la vita. Mi rutta sul viso e sorride. Una sera ha anche dato fastidio a una bambinaia nera, una ragazza buonissima che bada a due gemelli come se fossero figli suoi. Teodoro la voleva toccare, non la lasciava in pace. Io te e i bambini, che bella famiglia sarebbe, diceva. Ho dovuto spingerlo fuori, gridargli di non farsi più vedere, di cambiare zona. La mattina dopo me lo sono ritrovato che ronfava nel camion dei pompieri, sulla giostra, tra cocci di bottiglia e merda da tapparsi il naso.
“Insomma, lei non sa che fine abbia fatto quest’uomo.”
“E come faccio a saperlo. Io lavoro, io perfeziono il mio giardino ogni momento, non ho tempo da perdere dietro a uno come Teodoro.”
“Qualcuno ci ha riferito che avete litigato.”
“Ma no, sa com’è con gente così, si cerca di contenerli, di farli ragionare.”
C’era stata una festa di compleanno nel gazebo. Dolcetti, patatine, aranciate: Caio si era vestito da pagliaccio per divertire cinquanta bambini. Tutti erano contenti, era una bella festa. Caio non ha figli, ma pensa che i bambini del suo giardino siano le persone più importanti del mondo. Fuori dal giardino neppure li guarda, ma lì dentro sono angeli. D’improvviso s’è presentato Teodoro, arraffava patatine a manciate, si attaccava con la sua bocca sdentata alle bottiglie di coca cola. Le mamme si sono alzate in piedi, coi loro cuccioli tra le gambe. Ora basta, Teodoro, ha detto Caio, ora stai esagerando, se non te ne vai ti prendo a pugni. Teodoro ha risposto che lui era un sacerdote, al suo paese, e che voleva solo il bene di tutti quelli che stavano lì nel giardino. Vi voglio benedire con l’acqua santa, diceva, e sputava. Parlava un po’ in italiano e un po’ nella sua lingua dell’est, parole astruse che sembravano tuoni. Sto così bene qui. Poi s’è fatto il segno della croce e barcollando se ne è andato via, coi pantaloni stracciati che gli calavano sulle ginocchia. 
“Dunque lei non sa niente. Non sa dov’è finito quest’uomo.”
“Si sarà buttato a Tevere, forse.”
“A Tevere?”
“Dico così, non so niente.”
Era perfetto il giardino, quasi perfetto. Caio ogni tanto si sedeva su un altalena, la sera quando tutti erano andati via, e si guardava la sua creatura, Inagaddadavida. Gli elefantini rosa che dondolano sulle molle, la macchina rossa da formula uno, il calcio balilla, e ora anche il castello gonfiabile, con il tappeto elastico dove i bambini possono saltare, e la pesca miracolosa per tirare su pupazzi di peluche e palline di gomma, e la grande giostra che gira gira e non stanca mai: non mancava nulla, eppure Caio non era ancora soddisfatto. Qualcosa manca sempre, l’idea va sempre migliorata, e poi c’era quell’ubriacone che dava noia, che rovesciava i cestini dei rifiuti, che s’approfittava di quella pace instabile.
“Noi crediamo che a Teodoro sia successo qualcosa di brutto” dice il poliziotto toccandosi il pizzetto brizzolato. “Abbiamo ritrovato le buste di plastica con le sue cose qui davanti. Sa, a volte ci sono dei pazzi che vogliono ripulire la società e se la prendono con i barboni.”
“Questo è un quartiere piuttosto tranquillo” dice Caio allargando le braccia. “Ognuno si fa i fatti suoi, ma gente cattiva io non ne ho mai vista.”
I poliziotti sembra che non abbiano altro da aggiungere. Guardano il giardino con una certa ammirazione. “Ci porterò mio figlio” dice il più giovane, sporgendo il muso. “Ha quattro anni e non sta fermo un minuto.”
“Ma certo, questo è il regno dei bambini, porti il suo quando vuole, offro cinque giri sulla giostra e due sul trenino.”
Il più vecchio si liscia ancora il pizzetto, come se cercasse di spianare un dubbio. “Qualcuno ci ha raccontato che lei avrebbe detto a Teodoro: se ti rivedo qui dentro ti ammazzo.”
“Per carità, che sciocchezza. Teodoro combina spesso guai, ma io gli voglio bene.”
“Be’, se per caso sa qualcosa, passi al commissariato di zona.”
“Certamente. Vedrà da uno di questo giorni Teodoro riappare. Lui è fatto così, va e viene, casa sua è il mondo.”
I due poliziotti si allontanano, risalgono in macchina, spariscono nel traffico e nel rumore della città, laggiù, oltre il cancello.
Caio si siede su una delle seggiole di plastica bianca dove le mamme passano i pomeriggi a chiacchierare di niente senza perdere di vista i loro bambini.
Ora che finalmente Inagaddadavida è compiuto, Caio è orgoglioso del suo giardino. I poliziotti non torneranno più, pensa. Nessuno cerca a lungo uno come Teodoro, nessuno rimpiange un maledetto ubriacone. Adesso il giardino è davvero bello, ha trovato la sua armonia profonda. I bambini sembrano fiori colorati che ondeggiano nel prato, e ne sbocciano sempre di nuovi. E sotto terra, ben piantata nel fondo, ora c’è una radice scura, perché qui dentro tutto si tenga bene in equilibrio e il vento e la vita non mettano disordine.
Ogni tanto, verso sera, Caio chiude gli occhi e gli sembra di vedere Teodoro che gira sulla giostra tra i bambini, con la faccia sporca di sangue e la bottiglia rovesciata sulle ginocchia. Con la mano Caio gli fa cenno di scendere, e Teodoro risponde con un saluto, sorride come se non fosse successo niente. Lui è contento anche così, pensa Caio, e forse ora si sente a casa, parte di questo giardino felice che non vuole dolori. Qualche volta con quel suo vocione da matto urla Inagaddadavida, sembra che il grido esca dalla terra, e che tutto tremi per la paura, ma non è così, no. Per fortuna lo sento solo io, e le altalene che dondolano vuote, che cigolano.


Marco Lodoli


Vedi +

Smemoranda 2006


Vedi +