LA BESTIA NEL CUORE Dal romanzo al film

di Cristina Comencini su 12 mesi - Smemoranda 2005





Il mio ultimo romanzo, La bestia nel cuore, diventerà il mio prossimo film. Ne ho scritti altri quattro, ho realizzato sette film, e non ho mai avuto voglia di mischiare le due carriere. L’idea di girare un film da un mio libro mi sembrava come rientrare dalla porta di servizio in una casa amata, in cui avevo vissuto in completa libertà per due anni. Più seducente ogni volta era pensare ad un nuovo soggetto. In questo caso invece la voglia di ricavarne un film è nata subito. La storia del romanzo si presta: la trama è compatta nei luoghi e nel tempo (non ci sono attori da ringiovanire o invecchiare), c’è un’intensa attesa emotiva, e i personaggi agiscono soprattutto nel presente, che è il tempo preferito dal cinema.
Prima di esordire nella regia, quando scrivevo per il cinema, ho lavorato alla sceneggiatura de La Storia dal romanzo di Elsa Morante con la regia di mio padre. Due miei film sono tratti da libri: il primo è La Fine è nota, che si ispira a un giallo americano e il secondo è Va’ dove ti porta il cuore, inutile aggiungere nulla su quest’ultimo, lo conoscono tutti. In ognuno di questi casi ho sperimentato la difficoltà di mutare la materia densa di un romanzo, i pensieri dei personaggi, le loro avventure sognate o reali, i passaggi temporali, le descrizioni, nel condensato immediato, concreto, contraddittorio dell’immagine cinematografica. Per ridare l’atmosfera del libro, il clima, le relazioni tra i personaggi, essere fedele allo scrittore, devi essere pronto a tradirlo. Questa volta, dato che il libro è mio, devo essere dunque pronta a tradire me stessa.
Nel cinema, al contrario che nella letteratura, il regista e lo sceneggiatore hanno un vincolo temporale: devono cioè raccontare la loro storia, costruire la psicologia dei personaggi, le emozioni, la paura, la commozione, l’attesa o altro, in poco più di novanta minuti. Quando scrivo un romanzo posso raccontare tutti i segmenti temporali possibili della vita dei miei personaggi: il loro passato, i loro pensieri passati, il loro presente, le azioni mancate, le idee sul loro futuro ecc… Non importa quanto spazio occupino queste divagazioni, rispetto alla lunghezza complessiva della storia che sto narrando, basta che siano interessanti e coinvolgenti. Se il lettore, quella sera o quel pomeriggio, si sarà stancato di leggere, potrà chiudere il libro, mettersi a dormire o andare al cinema. Il giorno seguente riprenderà qualche pagina letta distrattamente, prima di addentrarsi di nuovo nella narrazione. Il lettore ha il suo tempo personale per godere del tempo del libro. Nel cinema questo non è possibile. Il film deve chiudersi in un tempo determinato e va inesorabilmente avanti come le lancette dell’orologio. La storia non può essere fermata dallo spettatore, non si ha la possibilità di distogliere lo sguardo e riflettere; quello che non si è capito resta un intralcio, un punto interrogativo che lo spettatore si porterà dietro fino alla fine, a meno che la comprensione non gli arrivi tardiva, guastandogli in questo caso un’emozione o un successivo colpo di scena.
Vediamo come inizia il romanzo: in una sala di doppiaggio Sabina, la protagonista, sta doppiando la scena di uno stupro in un telefilm americano. Poco dopo conosciamo il suo ragazzo, Franco, un attore disoccupato e Emilia la sua migliore amica che è diventata cieca per una malattia agli occhi e la ama in segreto aspettando le sue visite. C’è un intero capitolo del libro che racconta l’amore non confessato di Emilia per Sabina, i suoi pensieri, le sue immaginazioni in solitudine. Attraverso queste parole, leggendo il libro, so chi è Emilia, conosco il suo passato, i suoi sogni. Nel film mi serve una scena che condensi tutto questo in poco tempo e che mi faccia perdere il meno possibile del suo carattere. Immaginiamo che la sua casa sia nella semioscurità. Cosa importa a una cieca della luce? La macchina da presa entra in questo appartamento buio. La voce di una ragazza spezza di tanto in tanto il silenzio: frasi brevi, mozzate, considerazioni sparse. Un registratore raccoglie il diario sonoro della cieca. Udiamo il rumore del telaio, Emilia fabbrica tappeti. Anche nel libro ho descritto come abilmente le mani della cieca leghino i fili colorati, tocchino il telaio come un corpo. Ma nel film potrò vedere le mani dell’attrice muoversi sensuali e veloci nella semioscurità. Emilia chiude il registratore che le serve da diario perché non può più scrivere. Tante cose non siamo riusciti a farle dire rispetto al libro, ma l’immagine è stata una sintesi forte della sua vita solitaria. Ora Emilia aziona una radiosveglia e febbrilmente inizia a prepararsi come per una visita d’amore. Nel romanzo non è così: Sabina è già entrata e le sta leggendo un libro. Invece nel film, l’attesa, il modo in cui si prepara, si trucca, mette a posto la casa, ci mostrano l’importanza del suo sentimento, che non possiamo raccontare con le parole (è sola), e la sorpresa che la persona amata non sia un uomo ma una donna. Così sarà anche il rapporto di Sabina con Franco: andrà condensato in scene che ci raccontino il più possibile del loro amore, della loro vita di attori, della loro intesa fisica e spirituale, fino alla notte dell’incubo di Sabina che cambierà la prospettiva della loro storia. Sostituire idee visive alle parole, raggruppare gli accadimenti, mutare anche alcuni snodi, come per esempio la rivelazione della verità durante il viaggio di Sabina in America. La lunga scena con il fratello Daniele non può avvenire casualmente, come succede nel libro, per una parola di troppo. Andrà preparata durante la notte del capodanno. Una parola al cinema conta poco, si perde nel flusso delle immagini. Allora vediamo come possiamo fare: Sabina è andata in America dal fratello Daniele, perché vuole capire se l’incubo che ha spezzato in due la sua vita ha un fondamento di verità. I giorni passano, Daniele la evita, la porta in gita con la moglie e i figli nella natura, gelata come il loro rapporto. E alla fine Sabina pensa che non sia vero niente, che è stata un’immaginazione, che potrà tornare in Italia, dire a Franco del bambino che aspetta, ricominciare a vivere nella normalità come tutti. E poi, la notte di Capodanno, vede il fratello che fa scoppiare i fuochi d’artificio con i figli nel giardino innevato. È colpita dalla sua trasformazione: in genere è così taciturno, posato, sistematico. Ora fa esplodere i razzi con una furia inaudita, rivelando un’aggressività repressa che lei ignorava. Mentre Sabina lo fissa incredula dal vetro della finestra, le si avvicina la nuora Anne, ha bevuto troppo, vuole essere gentile perché ha saputo da poco che Sabina è incinta. Le dice che vuole brindare al bambino perché l’aiuterà a uscire dall’incubo. Quale incubo, le chiede Sabina, come fa lei a saperlo? Guarda il fratello che come un pazzo sembra voglia dare fuoco a tutto, fissa di nuovo il viso di Anne pieno di compassione per lei. Capisce. Esce all’esterno, corre nella neve verso Daniele, lo colpisce, lui cade a terra, cerca inutilmente di calmarla. Ora sappiamo, senza bisogno di parole, che finalmente lui le dirà la verità su quello che è avvenuto nella loro casa tanti anni prima, sull’immagine d’orrore che il sogno di una notte le ha rivelato. Questa scena intorno ai fuochi non c’era nel libro. O meglio esisteva ma non l’avevo usata per costruire lo squarcio di verità nella mente di Sabina. Il lavoro da fare è proprio questo: tirare fuori dal libro brandelli di immagini appena abbozzate, cumulare nella stessa scena informazioni sparse nelle pagine, battute di momenti diversi. Al cinema una stessa scena può raccontare tanti sentimenti contraddittori allo stesso tempo, la parola è obbligata a narrarli uno dopo l’altro. Questa è forse l’unica superiorità di un film rispetto a un romanzo, la contemporaneità dei piani narrativi. Bisogna usarla fino in fondo per cercare di ovviare alla obbligata concretezza dell’azione cinematografica, all’impero del presente, alla soppressione di ciò che è forse la materia principale della letteratura: le cose che non si vedono, quelle che si tacciono.
Elaboro un libro visivo dal mio romanzo. Le immagini non sono le stesse che avevo nella mente mentre lo scrivevo. Lì ero nel mio studio, sola. Ora faccio delle riunioni ogni giorno con le due sceneggiatrici con cui lavoro, insieme caviamo dalle pagine il film. Certi giorni ci sentiamo piene di frustrazione perché dobbiamo rinunciare a delle parole che ci appaiono fondamentali. Altri pensiamo che la scena appena inventata sia più forte e espressiva di dieci pagine del romanzo. Quando lo scrivevo, ogni mattina presto andavo nel mio studio, aprivo il computer. Desideravo ardentemente l’incontro con quelle persone che erano diventate per me più reali dei miei familiari, i personaggi del libro. La sera prima le avevo lasciate a metà di una cena, di una passeggiata, di una conversazione. Franco aveva ricevuto una lettera di Sabina; Emilia e Maria si erano appena date un bacio. Rileggevo le ultime righe scritte, guardavo dalla finestra il cielo bianco di nuvole, vedevo le due donne. Hanno appena dormito insieme per la prima volta. Maria prepara la colazione, Emilia sente il suo profumo svegliandosi nel letto. Immagini che non descriverò mai, servono allo scrittore solo per arrivare all’essenza dei suoi personaggi, fungono da collegamento interiore, visivo, verso la prima frase che appare dal nulla e che le esprime tutte,  nella precisione assoluta della parola scelta.
Nel libro Sabina, Franco, Maria, Emilia, Daniele erano volti incontrati, o collage di visi conosciuti. Allo stesso modo si immagina un volto dietro una voce sconosciuta al telefono, ci si fantastica su. Poi a poco a poco, pagina dopo pagina, diventavano loro stessi, in carne ed ossa, unici i loro dettagli corporei: il colore quasi viola degli occhi di Sabina, le mani lunghe bianche di Emilia, la piega amara della bocca di Maria. Ora invece questi stessi personaggi saranno i miei attori. Si impadroniranno per me e per gli spettatori delle loro frasi, degli atteggiamenti, dei loro sentimenti. Ogni attore darà qualcosa di suo al personaggio e fisserà su di lui il suo modo di essere. Saranno loro ad abitare le case, i luoghi che lo scenografo ha immaginato leggendo il libro e poi la sceneggiatura. Questi luoghi che scrivendo non vedevo mai interamente ma a frammenti. Una finestra davanti al mare, un ingresso pieno di libri e quaderni, un tramezzo che divide in due la camera dei fratelli. Questi frammenti bastavano al lettore. Ognuno, libero di immaginare il resto, aveva la propria stanza nella mente. Ma il cinema non è selettivo come la parola, vuole sapere tutto. Con la costumista dovrò trovare i vestiti giusti per il carattere di ogni personaggio, per ogni scena. Nel libro li descrivevo solo se mi serviva. Ora non posso lasciarli nudi. Riempirò di cose i silenzi del libro, quello che non dicevo verrà mostrato, ma basterà poco per ristabilire l’ambiguità, uno sguardo, un gesto improvviso, un’incertezza, per ridare allo spettatore la materia viva di ogni racconto, la parte più importante, nei film come nei romanzi, l’imprevedibilità della vita, colta negli interstizi della storia che si sta narrando.


Cristina Comencini


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