Un’inattesa pioggia estiva accendeva i profumi della campagna con la stessa furia del sole che l’aveva preceduta. Arrivò improvvisa e violenta. Non avevo scampo: abbastanza distante dal paese e da ogni riparo, ero destinata a infradiciarmi fimo alle ossa. La macchina, unico riparo possibile – se si escludono gli alberi perché, si sa, attirano i fulmini – era a circa trecento metri da dove stavo io.
Avevo parcheggiato fuori dai muretti, vicino alla fontana, prima del piazzale di una Cumbessìa, o Muristène, quei villaggi disabitati che si animano solo per la festa del santo. Veri e propri paesini, deliziosi a vedersi, che in tutta la Sardegna nascono intorno al santuario e vengono popolati soltanto in occasione della ricorrenza. Tutto il resto dell’anno stanno immobili, vuoti, inabitati, avvolti dal silenzio, porte e finestre sigillate, la chiesa col portale sbarrato, le erbacce, che verranno ripulite per tempo prima della festa, ad invadere il piazzale ed i muri di recinzione. Avevo lasciato la macchina lì fuori, sentendomi un’intrusa, quasi scusandomi con la grande chiesa che mi osservava severa dall’alto del suo unico occhio centrale: un piccolo rosone, scarno come l’occhio impietrito di un ciclope, austero nella tranquillità del suo sguardo immobile a sorvegliare la pace di quel luogo meraviglioso.
“Se arrivo alla macchina, sono salva…” mi dico ansimante correndo a rotta di collo per il sentiero “ma anche lì potrebbero scendere i fulmini. Si è sentito tante volte… allora la chiesa, che è anche più vicina: se non tira vento contrario, mi metto sotto l’arco dell’ingresso. Accidenti ai miei giri nella natura incontaminata!”
Inseguita dallo scroscio che aumentava ferocemente, era difficile anche correre. Concludo la corsa ormai fradicia e mi appoggio allo spigolo della porta mentre i tuoni sembrava che facessero tremare perfino i muri attorno.
“Passerà in fretta. I temporali estivi durano poco. Squassano, devastano, fanno correre i ruscelli, e se ne vanno rapidi come sono venuti.”
Queste parole, dette in un italiano perfetto con voce dolcissima, calma e melodiosa come la risonanza di uno strano flauto, mi avvolgono improvvise facendomi sobbalzare mentre cercavo di spremere i vestiti in una posa ridicola ed oscena: avevo levato la camicetta e mi curvavo cercando di torchiarla per potermela rimettere senza rabbrividire.
“Non preoccuparti, figlia mia… sono vecchio e queste sono cose normali. Non sto guardando te. Rivestiti con calma quando avrai strizzato la camicia. Intanto ti apro la porta.”
Ad aver parlato era un uomo piccolo, un vecchio pallido e gracile, vestito di scuro, che avanzava lentamente verso di me, uscito chissà da dove, sotto un ombrello verde: uno di quegli enormi ombrelli di tela grossa che i pastori usano in campagna.
Dietro di lui, con un altro ombrello nero, una vecchia avvolta in uno scialle nero, ancora più gracile, più piccola e più curva.
“Buonasera” disse senza alzare troppo lo sguardo “entri che si asciuga.”
La sua voce, al contrario, era stridula, acuta, esile come la sua figura.
Mentre mi rivestivo precipitosamente, osservando la fragilità e la dolcezza di quelle apparizioni, tentavo di scusarmi ancora per superare l’imbarazzo. Tutto potevo aspettarmi, tranne che in quel luogo solitario, in quella tempesta, sbucassero dal nulla due figure così imprevedibili. Balbettai qualcosa, ma mi accorgevo che, forse per l’umidità, la mia voce non poteva più uscire dalla gola. Le parole si fermarono in un grumo e riuscii ad emettere solo un soffio rauco.
“Non c’è bisogno di parlare. Stai tranquilla. Dobbiamo muoverci. Fra poco arriverà nostro figlio a prenderci: ha le pecore lassù” disse il vecchio indicando la collina di fronte “e deve rientrare prima che faccia sera.”
La vecchia estrasse una grossa chiave scura da sotto lo scialle e la passò all’uomo che aprì senza sforzo facendo scattare l’antica serratura quattro o cinque volte.
“Stavo aspettando.” mi disse “Qui viene sempre qualcuno. È bello e c’è pace. D’estate passano i turisti e fanno merenda seduti attorno alla fontana. Certe volte sporcano e a noi ci tocca di ripulire. Vieni.”
Così dicendo la donna attraversava la chiesa e mi conduceva verso la sacrestia. La superammo, aprì un’altra porta con le maniglie d’ottone, e mi fece segno di entrare in una grande stanza con un tavolo e delle sedie. Nel camino c’era una brace calda sotto la cenere. Prese alcuni legnetti dalla catasta e riavviò il fuoco con un soffio.
“C’è ancora fuoco. Questa è la casa del prete. Ma ci stiamo anche noi. Siamo sempre qui, teniamo la casa. Siediti. Adesso vado. Dobbiamo sistemare perché tra poco ci sarà la festa e arrivano tutti. Tu riposati e asciugati al camino. Qui chiudiamo a chiave. Esci dalla porta di dietro e poi tira forte per chiudere. Non preoccuparti per il fuoco: si spegne da solo.”
Uscì lenta e silenziosa com’era arrivata. In quel momento capii che non avevo pronunciato nemmeno una parola e che i vecchi rispondevano alle mie curiosità precedendo ogni domanda. Come se mi leggessero dentro. Però, in fondo erano domande ovvie… certo… non ci voleva grande intuito.
Al calore di quel fuoco credo di essermi perfino assopita qualche minuto. Il tempo di asciugarmi e riprendermi un po’. Mi sembrava di vivere in un sogno. Ma la stanza era reale e qualcuno me l’aveva aperta. Decisi di uscire prima che il sole tramontasse del tutto. L’aria umida si era rinfrescata, e il cielo rischiarato si stava arrossando. Qualche nuvola blu scivolava ancora verso l’orizzonte portandosi lontano il temporale.
Ero sul retro, dietro l’abside. Camminavo sui sassi per non bagnarmi con l’erba. Andando verso la macchina mi voltai a guardare la facciata della chiesa.
Dall’altro lato, fra le querce del pascolo che scendeva a valle, cominciai a vedere dei fili di fumo, di vapore grigio, che si levavano lentamente e ondeggiavano piano. Era uno strano fenomeno e pensai che dipendesse dal fatto che fosse la terra calda a mandare vapori.
Socchiusi gli occhi e li riaprii per osservare meglio. Feci questo gesto diverse volte, come per riportare la mia vista ad uno stato normale, ma ogni volta che li riaprivo vedevo che le colonne si erano allargate ed avevano preso un aspetto più definito. Ormai erano tutte delle dimensioni di un corpo.
E sentivo qualcosa nell’aria, come se ognuno di quei fili di fumo emettesse una voce, un flebile lamento pervaso di tristezza infinita.
In piedi sulla soglia, anche lui scortato dalla tristezza, il vecchio mi stava salutando con un segno della mano. Al suo fianco riapparve la vecchia che, senza parlare, mi diceva: “Non andare lì. Resta immobile dove sei. Non devono vederti o la loro tristezza aumenterà. Resta ferma. O vattene via subito. Lasciali in pace. A febbraio si piangono i vivi, a novembre si piangono i morti. Oggi non si ride e non si piange.”
Mentre il vecchio, col volto serio e gli occhi sempre più infossati, continuava a ripetere dentro la mia mente: “Non parlare alla fontana… Non parlare alla fontana… Non devi parlare alla fontana… stanotte non devi parlare.”
Il terrore mi stava già paralizzando. Per reagire mi misi a correre verso la macchina. Ma dovevo passare davanti alla fonte, un abbeveratoio di pietra, dove cantava un fiotto sottile, gelido e perenne. Gelido come il freddo della morte che mi stava circondando.
“Non hai paura della notte? Fermati qui.”
La voce chiara, ma con toni soffocati, veniva dalla fontana.
“Sa Pana!” pensai subito ripensando ai racconti di casa mia. “Le Panas sono donne morte di parto che lavano in eterno i panni del loro bambino mai nato. Se gli si rivolge la parola, ti vengono dietro” diceva nonna  “e se tu o qualcuno vicino a te sta per avere un figlio, te lo prendono.”
“Sei sposata?”
Una luce azzurrina, di una luminosità opaca, cominciò a emanare dal lato dell’abbeveratoio.
“E dove stai?”
Mi sentivo svenire. Mancavano pochi metri alla macchina e intanto… dove potevo aver messo la chiave? La maledetta chiave che non è mai dove la cerchi.
“Ora vengo con te… mi vuoi? Non hai pena di me? Hai pena di me? Lo vedi il mio bambino? È bello il mio bambino…”
La voce diventava un vento, un soffio melodioso, un canto che paralizzava di dolore. Il terrore mi stava già immobilizzando, non riuscivo più a camminare né a pensare, quando avvenne il miracolo.
Annunciato da una marmitta rombante, un vecchio furgone, scassato e scoppiettante, scendeva quasi rotolando dalla collina di fronte, quella indicata poco prima dal vecchio. Il fracasso assordante si avvicinava sempre più rapidamente. Man mano che procedeva potevo sentire che, come un nugolo di insetti ronzanti, lo avvolgeva il frastuono ritmato di una musica disco martellante. In altre situazioni sarebbe stato intollerabile, ma allora mi mise un’allegria senza limiti, una voglia incontenibile di saltare, di corrergli incontro ad abbracciarlo… chiunque fosse…
La luce alla fontana era sparita e l’acqua che scorreva si era ingoiata anche la voce. Le colonne di vapore fra gli alberi non si vedevano più, ed anche i vecchietti, dopo un ultimo cenno di mano, scomparvero dietro i muretti scuotendo la testa.
Ero felice! Tutte le teorie sul mondo moderno si stavano provando chiaramente davanti ai miei occhi: l’avanzare ineluttabile della civiltà avrebbe appiattito il mondo consegnandolo a una dimensione il cui l’onirico e il fantastico non potevano più avere spazio. Ero salva! Eticamente contraria a questi processi di disumanizzazione della vita, ma salva!
E avevo pure voglia di ballare.
Non sopportavo la Disco, e, proprio come me, nemmeno i fantasmi e le Panas potevano reggerla!
Intanto le note di I Wanna Be Your Lover del duo La Bionda scendevano precipitando dalla collina e si avvicinavano al piazzale. Corsi incontro a quel vecchio furgone scassato.
Mentre il sole finiva di scomparire all’orizzonte e il frastuono di Bandido sparava nel silenzio della sera barbaricina, un cinquantenne coi baffoni scese dallo scassone che si era fermato davanti a me sbandando pericolosamente.
“E tu cosa ci fai qui da sola? Non lo sai che sei in Barbagia e ci sono i banditi?”
Ero annichilita e completamente felice. Devo aver sorriso a quel robusto cinquantenne con i baffoni come forse non ho mai più sorriso a nessuno. E lui dovette accorgersene perché proseguì subito: “Ajò in paese a berci una cosa che stai tremando di freddo. Non lo vedi? Scommetto che hai preso tutta la pioggia…”
“Certo che un tè caldo mi farebbe bene…”
“Ma quale tè caldo! Unu ticcu de abbardente… un bicchierino di acquavite e ti passa tutto il freddo! Non ti piace la Disco?”
“Ci sono cresciuta con la Disco!”
“Allora già andiamo d’accordo… e di dove sei?”
“Di Cabras…”
“Ah… ci vado sempre a mangiare muggini a San Salvatore! E vernaccia! Adesso ti fanno il palloncino e mi tocca dormire lì. Ma ho amici e non mi dispiace… così me ne bevo di più. Dormo nella Cumbessìa. È come qui.”
“Eh no… come qui no! Ne so qualcosa. Qui è molto diverso… più antico… no… a Cabras no…”
“Ma andiamo in paese che hai freddo. Ti porto a casa e ti cambi. Mia moglie ha più o meno la tua taglia di vestiti. Chiediamo qualcosa a lei… basta che non pensi male e ci butta fuori tutti e due… ah ah… sto scherzando: è in gamba mia moglie. Le piace anche a lei la Disco. Andavamo sempre a ballare. Ajò. pone fattu… seguimi, già vado piano con questo carrabuso… che corre solo in discesa.”
“A proposito di discese… ma tu hai le pecore lassù?”
“Sì, lì sopra ci sono solo io.”
“Poco fa ho parlato con due vecchietti, marito e moglie, che aspettavano il loro figlio. Dicevano che doveva scendere da lì, dove aveva le pecore.”
“Ma se lì sopra ci sono solo io! Non è possibile, ti stai sbagliando di sicuro.”
“Mi hanno detto così.”
“E come erano questi vecchietti?”
“Piccoli, magri, molto vecchi… vestiti di nero… lui aveva un ombrello verde…”
“Tutti i vecchi qui sono vestiti di nero. E la maggior parte da vecchi diventano piccoli e magri. I vecchi si asciugano… E l’ombrello verde ce l’hanno tutti i pastori. Anch’io ce l’ho dentro il furgone…”
“Va bene… ma…”
“E poi i miei vecchi sono morti da sette anni. Tutti e due in poco tempo. Uno dietro l’altro… Ajò… sali in macchina che andiamo.”   


Michela Murgia


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