La brigatista e il killer

di Piero Colaprico su 12 mesi - Smemoranda 2010





Lo so di stargli antipatica. Ma ha qualche cosa da dirmi. È che non sa in che modo cominciare. È un bravo sbirro, sta “abbottonato”, come dice lui. In camera sua Natalia fa i compiti, domani deve essere interrogata sui sumeri: non avevo voglio di provare la lezione, come non ho voglia di cucinare, di rifare i letti, di ramazzare le stanze, di stirare. Non ho l’animo della mamma, ma è proprio per essere mamma che mi sono prima dissociata e poi pentita, mentre le nuove brigate rosse, le brigate comuniste combattenti, sempre di meno, sempre più disperse, non mollano. Ma come fanno?
“Un killer.”
Il maresciallo alla fine ha parlato: “Non mi chieda come, ma i servizi americani ci hanno segnalato che c’è un killer che la cerca.”
Cerco di restare impassibile, fingo una perplessità che non ho, in fondo me l’aspettavo, esistono ingranaggi che non si possono fermare.
“Questo killer o ha fatto domande dove forse non avrebbe dovuto e loro, los americanos, l’hanno saputo. Oppure, ha telefonato un po’ troppo e lei sa che esistono dei sistemi di controllo automatici, che scattano in base ad alcune parole. Comunque è stata avvisata la Digos a Milano. La Digos ha chiamato il mio comando. E io sono qua, compagna Victory. Non è una bella situazione, no?”.
È il responsabile di una caserma di sette persone, in questo paesino della Carnia dove ci hanno confinato, con un falso nome, una falsa identità, un lavoro part-time nel Consorzio dei vini, con Natalia che si chiama sempre Natalia ma di cognome adesso fa Bigot, e sta imparando il friulano meglio dell’inglese. Il maresciallo non è un montanaro: tutto meno che un montanaro. Lavorava al Nucleo Informatico di Milano, il suo nome di battaglia era “Pedale”, dice in giro di essersi occupato di logistica, ma in realtà stava nella squadra che ha preso me e altri quattro, la “colonna milanese” di un esercito di fantasmi molto coriacei, visto che mi vogliono fare la pelle, ma chi ci poteva credere? Ma se è venuto a dirmelo, è vero.
“La compagna Victory avrebbe sparato, ma io armi non ne ho più e sono tornata a chiamarmi come un tempo. Che cosa devo fare?”.
“Stare all’occhio. Ho avvisato i vigili urbani di tutta la valle, devono avvisarmi se vedono arrivare qualche foresto. Ho parlato con il sindaco e abbiamo chiuso da oggi la strada alta, chiunque entra in paese adesso deve passare dalla piazza. Però, non è detto. Magari non arriverà mai nessuno, perché lei è stata protetta bene, o magari è già qua. Quindi, uno, esca di casa il meno possibile. Due, mi avvisi sempre se si allontana. Tre, decida lei che cosa fare con la bambina.”
“Cioè?”.
“Mandarla dai nonni o lasciarla tranquilla con lei. Non dire niente o avvisarla che ci sono pericoli. Faccia lei e mi dica, tanto sto io a guardia di questo profondo pozzo nero dove mi hanno mandato per proteggervi.”
“Lei ce l’ha con me.”
“È il mio servizio, se volevo fare l’impiegato non facevo domanda per entrare nei carabinieri.”
“Perché sono stata una brigatista.”
“Sì, voi rivoluzionari senza rivoluzione mi avete rotto i coglioni. Guardate intorno a voi che cos’è il comunismo nel mondo, sparito. E voi lo volete ripristinare con le armi, in Italia? Questa non è politica, è follia. È demenza giovanile. Meglio la mafia di voi. Almeno i picciotti uccidono per soldi, voi avete ammazzato per niente.”
È la settima volta che, con parole diverse, mi esprime questo concetto. Sono stanca di parlargli di idee e di giustizia sociale, anche perché io ho usato la violenza e adesso ho pure rinunciato alle vecchie idee per fare la mamma. Ma nemmeno so fare la mamma, forse non saprei fare nemmeno la moglie. Se mi mancano gli uomini, faccio come facevo in cella, li penso.
“Maresciallo, la ringrazio, vuole fermarsi a cena?”.
Non si ferma mai: nemmeno questa volta, nemmeno con un killer che vuole ammazzarmi.

Avevo chiuso tutte le porte, ma una finestra sbatte in bagno. Ho preso il coltello dal comodino, ho seminato armi in mezza casa, anche se non devo entrare in paranoia. È passata una settimana esatta e non è successo niente di niente, come mi pare sia la norma da queste parti. Non ho manco digerito il formaggio comprato domenica alla festa della parrocchia: quel formaggio fatto con gli avanzi degli altri formaggi, stagionato sotto le vinacce, buonissimo, è un mattone per il mio fega…

Dolore. Dolore accecante. Dolore, dolore che mi paralizza. Oh no, Dio mio, Dio mio abbi pietà di noi. Mi hanno legato al letto, a gambe e braccia aperte, e mi hanno messo una museruola, una cosa strana. Non posso gridare. Un uomo si avvicina e mi afferra i capelli, mi scuote la testa, non devo lamentarmi. Annuisco. Sto zitta zitta. Poi sparisce. Quanti saranno? E chi saranno? I veneti? Forse mi ha trovato la colonna veneta. Sono i più vicini, ma non erano forti: c’erano due camerieri, un artigiano, un precario delle scuole medie, almeno per quello che so io, e il capo è un barista, l’ho detto al maresciallo «Pedale». Maresciallo, siamo nella merda, io più di lei, questo è certo.
L’uomo è tornato e ha un cellulare in mano: “Ho fatto”, dice, e chiude.
A chi parla? Non lo vedo più. Cammina e parla. Mi parla: “Lei ha ucciso un giovane professore che si occupava di diritto del lavoro.”
Annuisco, me lo ricordo benissimo. La sua faccia che si contrae mi tormenta spesso, rivedo il processo, con il padre devastato da un’angoscia insopportabile: mi sono pentita anche per lui. Mi dà del lei? Strano, rieccolo questo bastardo. Ma sta leggendo un foglietto? Non è italiano. Cazzo, non è italiano. É uno dell’est. Uno slavo. Non ci sono brigatisti albanesi, rumeni, o chissà che cosa…
Ma questo legge. Legge un comunicato.
“… aveva poco più di trent’anni, era stato negli Stati Uniti, in Israele, in Russia, in Inghilterra, dovunque lo ritenevano un innovatore, uno con idee possibili. Poi siete arrivati voi rivoluzionari e l’avete ammazzato. Il volantino l’ha scritto qualcuno delle Bcc che non conosceva né il professore né la storia né l’economia. Non si può sopportare la sua libertà da Giuda dopo la sua crudeltà da Erode. Uccidere lei sarebbe troppo semplice.”
Il killer sbuffa. Si alza. Prende dal frigo una coca-cola, la beve, torna a sedersi e all’improvviso mi strappa i vestiti. Si ferma a guardarmi mezza nuda, sento il cuore che diventa piccolo come un cece, ho paura, paura, paura come mai nella mia vita, mi viene da pensare a quando leggevo sui giornali…
Si è seduto. È calmo. E legge di nuovo: “Lei deve provare che cosa si prova a perdere un figlio, com’è successo a me. Lei ha una bambina, Natalia, ho letto la sua storia. Ho capito, ma lei a suo tempo non ha capito. E ora è tardi per tante cose, tranne per una. Solo se muore sua figlia, io torno a respirare, lei deve vedere morire sua figlia, sapendo…”.
Non riesco più a gridare, né a sentire, le parole di tutti si perdono nel vuoto, vero nero. La prima cosa che mi ha detto, quando sono rinvenuta è stata… Come ha detto quest’uomo quando è tornato? Ha detto: “Ho fatto”. Me l’ha uccisa? Ma dov’è Natalia?
“… sapendo che è per mano mia, perché solo così avrà per sempre lo stesso dolore che provo io quando…”.
Natalia, Natalia, posso farcela, devo farcela, non sento gli schiaffi che mi gonfiano le labbra. Non riesce a farmi tacere, devo divincolarmi, urlare, aiutatemi, mia figlia, mia figlia, dov’è, dov’è, era in camera sua, dormiva, l’ho baciata, Natalia, Natalia, mi ha legata, bastardo assassino, ma il letto, il letto lo spezzo, posso farcela, devo farcela, amore di mamma, amore di mamma, mamma, mamma, mamma.

Un fulmine. Forse dev’essere entrato in casa un fulmine. Era nuvolo, sto volando? No, ma è pazzesco, mi ha drogato o che cosa… È tutto di un bianco misterioso, nelle orecchie c’è come ovatta, tanta ovatta, e il letto m’è caduto addosso e piango, piango, e ’sto pezzo di merda mi prende a calci, male, male, ma sento levarsi un singhiozzo. Conosco, conosco quel…
Il singulto, Natalia, Natalia, Natalia. Mi ha preso le spalle, è finita. Ma sento i polsi liberi. Giro la testa e vedo.
“Pedale”. Non l’ho riconosciuto subito con il giubbotto antiproiettile e un fucile a pompa che non ha usato, non sento le sue parole, ma sorride con gli occhi, sorride e respiro. Il killer si lamenta sul parquet, è stretto tra alcuni uomini, c’è anche una donna con i capelli biondi corti, un bel tipo, lo tiene schiacciato. E vedo Natalia, è in braccio a una ragazzina in tuta mimetica, mi parlano e non sento niente: sento solo la bambina che piange, ma forse non è il suo quel singhiozzo, è il mio, sì, è il mio.

“Pedale” ha ammesso che aveva piazzato – da sempre, quel guardone – una “videosorveglianza” a casa mia, una roba illegale. Ma di certo non lo denuncio. Ha visto quello che ha visto, amen, sono una donna sola, succede. Aveva anche “disposto”, come dice lui, sei telecamere in piazza, e fatto arrivare due dei Gis da Roma, e ogni giorno una donna carabiniere prendeva la corriera, finché l’hanno presa in sette e, tra questi, cinque erano del posto, una era lei, l’altro il killer. Sembrava un poveraccio in cerca di lavoro, e l’aveva trovato: ero io il suo business.
Mi spiace davvero per il padre del professore. Andrà in galera, dicono, ma chissà. Da Roma vorrebbero tenere segreta questa storia, ma non pare possibile: hanno arrestato a Treviso anche due investigatori privati, due bastardi, lavoravano per una compagnia dei telefoni ed erano riusciti a fornire persino una mia fotografia, con tanto di cuffia, mentre sistemo la macchina etichettatrice del Consorzio.
Intanto bisogna cambiare di nuovo posto, ma per qualche giorno sto tranquilla. Le vie d’accesso a casa sono transennate e il maresciallo “Pedale” è tornato a sorridere. Andiamo in una città, anche se del Sud: non è tipo da stare nei paesini, lui.
Però cucina bene, ha accettato un invito a restare a cena a patto che badasse personalmente ai fornelli. Non ha moglie, non s’infastidisce quando Natalia ripete per la terza volta la lezione e, no, giuro che questa è l’ultima che mi aspettavo dalla vita: un maresciallo dei carabinieri e mia madre – l’hanno caricata su un elicottero, lei che fa fatica a prendere la metropolitana – che parlano di me. Ascolto distrattamente com’ero alle superiori, quando mi piaceva leggere Cime tempestose e cantavo a squarciagola una canzone d’amore, una bella canzone, Se bruciasse la città.

© 2009 Piero Colaprico
Pubblicato su Licenza dell’Agenzia Letteraria Roberto Santachiara


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