La frottola più forte

di Tiziano Scarpa su 12 mesi - Smemoranda 2013





Se sono quello che sono, lo devo a una frottola. Me ne rendo conto mentre affondo la lama nella pancia di questa donna. La pelle si taglia, il sangue affiora, e io penso che sono la conseguenza di una frottola.
    Ventitré anni fa stavo finendo il liceo. Ricordo quel periodo, pieno di angoscia e insicurezza. Mi preparavo all’esame di maturità, ma non era quello che mi preoccupava. Davo per scontato che l’avrei superato senza problemi. Studiare mi piaceva, ero preparato. Il problema non era la scuola, ma la vita. Ero preoccupato di quello che avrei fatto dopo.
    Non mi piaceva il mondo intorno a me, vedevo dappertutto avidità, ipocrisia, egoismo. Tranne una cosa. L’arte. L’arte dei morti. I nostri antenati. Le generazioni del passato. Chi era vissuto prima di noi ci aveva lasciato cose meravigliose. Dipinti, statue. Andavo nei musei, mi fermavo per ore in silenzio, con gli occhi aperti: più che guardare, mi lasciavo pervadere. In quei momenti mi sembrava di capire una cosa: anche loro, come me, avevano odiato il loro tempo, ne ero sicuro, non erano riusciti a sopportare le persone che gli stavano intorno. Per questo gli artisti del passato avevano cercato di fare qualcosa che non appartenesse completamente al loro tempo, ma durasse di più dell’epoca che avevano avuto in sorte di vivere. Guardavo una tela di Caravaggio, una statua di Bernini e pensavo: hanno fatto tutto questo per noi, e per tutti quelli che verranno dopo di noi. Dalle profondità della loro vita hanno mandato un messaggio anche a me, hanno dipinto e scolpito anche per me. Ci tenevano a dirmi: lo vedi, non tutto fa schifo, esistono anche delle eccezioni in mezzo a tutto questo orrore.    
Io non ero capace di fare neanche uno scarabocchio. D’altronde, non avevo nessuna velleità da artista, volevo soltanto passare la vita in compagnia di quelle cose meravigliose. Volevo studiare storia dell’arte. Ma non sapevo come l’avrebbero presa i miei genitori. Mia madre, e soprattutto mio padre, preferivano che mi dedicassi a qualcosa di più pratico: legge, economia, medicina. Non sapevo come dirglielo. E se avessero reagito male? Se mi avessero detto: perfetto, fai pure quello che vuoi, ma fuori di qui. Segui la tua strada: inizia al di là della porta di casa, arrivederci. Avrei dovuto trovarmi un lavoro, pagarmi una stanza, provvedere a me stesso. Ero disposto a farlo, per stare accanto alle mie amate opere d’arte? Avrei speso la mia vita, gli anni dell’università, la giovinezza piena, sgobbando giorno e notte?
    Non sapevo che cosa decidere.
    Non ne parlavo con nessuno. L’unica persona con cui mi confidavo era Giorgina. La piccola Giorgina: una delle poche cose che mi sembravano all’altezza dei dipinti e delle statue del passato. Giorgina aveva lo stesso incarnato di una fanciulla di Caravaggio, solo che sotto la sua pelle il sangue pulsava caldo. Aveva i tratti delicati di una ragazza di marmo di Bernini, ma le scintille che guizzavano nei suoi occhi erano vive.
    Non l’avevo mai vista nuda. Non tutta intera. Soltanto a pezzi. Avevo tastato le sue mammelle sotto uno strato di lana. Avevo spinto timidamente la punta delle dita dentro l’ingresso della sua pancia, scottandomi i polpastrelli, ma sempre di fretta, nei pochi minuti in cui ci capitava di restare soli a casa sua, con l’ansia di venire scoperti dai suoi genitori o da suo fratello. Giorgina non si spogliava mai del tutto, voleva essere sempre pronta a riabbottonarsi in due secondi, se fosse tornato qualcuno. Aveva diciassette anni, io diciannove.
    Dopo quegli incontri frettolosi ero sempre stravolto, perché non c’era mai modo di arrivare fino in fondo. Rimanevo inappagato, eccitatissimo, solitario. Assemblavo nella mente i pezzi di lei che avevo sbirciato: la sua nudità completa potevo ricostruirla soltanto con l’immaginazione.  Dovevo sbrigarmela da solo, facendo i conti con la mia solitudine popolata di fantasmi.
    Ma a parte questo, le raccontavo i miei dubbi: come avrei dato la notizia ai miei genitori, la reazione che avrebbero potuto avere. “Tu mi seguiresti? Se fra tre mesi io scegliessi di lavorare e studiare, verresti a vivere con me? Fra poco compi diciotto anni, sarai anche tu padrona della tua vita.”
    Le dicevo queste cose, ma come facevo a contare su di lei? Era una ragazza ancora più insicura di quanto lo fossi io, non sapeva che farsene di sé. Questo, invece di deludermi, mi inteneriva. Mi sentivo chiamato a proteggerla. Contavo qualcosa per lei. Non ero l’ultimo nella fila dei deboli. C’era qualcuno più debole di me: Giorgina; e anche se ero un povero diciannovenne nullatenente, ero più forte di lei, potevo aiutarla. Questo mi faceva sentire più potente, mi dava fiducia in me.
    Se ci ripenso, era veramente strano che io mi fossi innamorato di lei. Sì, è vero, Giorgina era graziosa, un bocconcino sensuale che mi prendeva alla gola, deglutivo spontaneamente ogni volta che pensavo a lei. Vederla come si muoveva, le facce che faceva il suo viso, quell’irresistibile gobbetta sul naso, tutto in lei smuoveva nel profondo quello che c’era in me di maschile.
    Mi vengono in mente tutte queste cose, adesso, ma non mi distraggono, sono pensieri che intensificano la mia concentrazione. La lama si fa strada, sa come inoltrarsi, apre, separa, conosce tutti i punti vitali.
    Voglio dire, nella vita poi ho amato donne di tutt’altro tipo, che sapevano quello che volevano, da sé e da me. Giorgina non aveva voglia di studiare, non si impegnava in nulla. Quando le chiedevo che cosa avrebbe voluto fare dopo la maturità, non sapeva che cosa dire. Litigava sempre con i suoi, ma a me sembrava che avessero ragione loro. Rischiava di farsi bocciare per trascuratezza, non perché fosse poco intelligente. Era pigra.
    Ero scemo. Mi ero scelto una ragazza incapace di darmi man forte. Io stavo a fantasticare di trovarmi un lavoro, cameriere, barista, addetto alle pulizie, corriere di una ditta di trasporti, traslocatore, venditore a domicilio, rappresentante, commesso, manovale, per pagare l’affitto di una stanza e le tasse universitarie, e mi sarei ritrovato accanto questa ragazza svogliata, che non era neanche capace di impegnarsi quel tanto che bastava a togliersi la scuola dai piedi. Si rendeva conto? Era disposta a rimanere invischiata un anno di più in quella farsa? “L’adolescenza è soltanto un’etichetta, è una falsità del nostro mondo orribile che impedisce alle persone ormai adulte di sprigionare le loro forze immense, nel periodo della vita in cui potrebbero spaccare le montagne”. Scrivevo frasi così, nel mio diario, in quel periodo.
    Finché, un giorno, Giorgina me lo disse.
    “Ho la sclerosi. La sclerosi multipla. Ecco perché.”
Sarebbe stata questione di anni, ma il suo destino era segnato. La malattia avrebbe indurito a poco a poco il suo corpo, l’avrebbe paralizzata fino a stecchirla. Si sarebbe trasformata in una statua, ferma, bloccata, come quelle che ammiravo tanto.
    L’abbracciai forte. Le stetti vicino anche quando la bocciarono. La consolai. “Non ti preoccupare, andrà meglio il prossimo anno. E poi, ci sono cose che contano molto di più della scuola”.
    Tutto il resto venne da sé. Non ebbi più dubbi. Mi iscrissi a medicina. Passai il test di ammissione. Mi misi a studiare furiosamente.
    I miei non sapevano nulla della malattia di Giorgina. Erano felicissimi. Io ero disperato. Perso in un delirio di assoluta dedizione, e anche di superbia, a pensarci bene. L’avrei salvata, avrei trovato io la cura definitiva della malattia che aveva iniziato a ucciderla al rallentatore. Non c’era tempo da perdere. La sclerosi stava progredendo dentro di lei, io dovevo fare più in fretta del morbo. All’esterno sembrava tutto normale. Giorgina era quella di sempre. Ma la diagnosi parlava chiaro, non lasciava scampo.
    Mi immersi nello studio con tutto me stesso. Fu come entrare dentro una galleria nera sotto una montagna pesantissima.
    Le prime lezioni dell’università erano dedicate alle nozioni fondamentali, anatomia, chimica di base, i primi assaggi di biologia. Io però intanto mi lanciavo in avanti, mi documentavo sulla sclerosi, facevo incursioni selvagge nei manuali di patologia generale e nelle pubblicazioni specialistiche, sapevo già tutto sulle malattie autoimmuni croniche mielinoclastiche, mi riempivo di formule e terminologie, anche se non avevo la preparazione scientifica per capire quello che assimilavo. Non ero ancora in grado di comprendere il significato effettivo di un esame del sangue, i risultati di una risonanza magnetica. Sapevo a malapena leggere un termometro. Lo stesso, chiesi a Giorgina di farmi vedere tutto quello che aveva, gli esami, la sua cartella clinica. Lei non me la portò subito, non le era facile procurarsela: un giorno perché la cartella era nell’archivio dell’ospedale, un altro ce l’avevano i suoi, un altro ancora era in visione da uno specialista.
Finalmente me la consegnò. Dentro c’erano tante carte piene di tabulati, qualche grafico. Mi ci buttai dentro, ma non riuscivo a ricostruire un ordine, mi sembravano dati senza senso. Mi sentivo un incapace, un ragazzo presuntuoso che si era illuso di risolvere problemi infinitamente più grandi di lui. In mezzo trovai un foglio scritto con la biro viola, in una grafia che conoscevo bene, con i puntini sulle i a forma di pallina. Una lettera. Per me. Giorgina non aveva il coraggio di dirmelo a voce che quelle carte le aveva rubate in uno studio medico, ma non c’entravano niente con lei: si era inventata tutto, per farsi compatire, perché aveva paura di perdere anche me, dopo che aveva fallito a scuola e i suoi genitori volevano mandarla a lavorare. Non ce la faceva più a raccontarmi frottole. Non c’era nessuna malattia, a parte la sua poca voglia.
    Era in piedi di fronte a me, mi guardava leggere.
    È stata l’unica volta in vita mia che ho picchiato una donna. Uno schiaffone, uno soltanto. Lei si è messa a piangere in silenzio. Lacrimava senza dire nulla. Lacrime sanissime bagnavano la sua guancia arrossata.
Una faccia infelice che scoppia di salute. Fu l’ultima immagine che mi rimase di lei, per ventitré anni.
    È così che sono diventato un chirurgo. In seguito alla frottola di una ragazza svogliata. La sua invenzione mi ha spinto a prendere una strada che non avrei mai scelto se avessi fatto quello che mi piaceva. Ho continuato a studiare medicina. Sapere che Giorgina non era malata mi ha mostrato la verità, non solo sulle sue condizioni fisiche, ma su tutto quanto. La sua frottola era più forte di quella che mi raccontavo io quando volevo diventare un esperto di arte del passato solo perché non sapevo come rendere meno orrendo il presente. Anche se era una frottola, ne ho riconosciuto la forza, l’ho assecondata, e ora eccomi qui, con una mascherina sul volto e un bisturi in mano.
    Mi prendo qualche secondo di pausa prima dell’affondo decisivo, mentre i miei assistenti si danno da fare intorno alla ferita. Ne approfitto per guardare la faccia di Giorgina, sprofondata nell’anestesia. Adesso è una donna di quarant’anni, ma la pelle del viso è ancora liscia, le guance sono floride anche sotto la luce cruda della sala operatoria. Il naso è più dritto di come me lo ricordavo, manca quella gobbetta che mi piaceva così tanto da ragazzo. Un mio collega, un chirurgo estetico, deve aver fatto qualche miglioria, secondo lui, ispirandosi a chissà quale canone di bellezza. Non certo quello di Caravaggio o di Bernini.
    Non l’ho mai vista nuda tutta intera. Neanche questa volta, sotto il telo sterile verde, aperto sopra l’inguine che ho appena spalancato con il bisturi. Sono a contatto con la sua intimità più profonda. Ventitré anni fa non avrei mai immaginato di arrivarci da questa parte.
    Riprendo ad affondare. La lama arriva alla massa tumorale. Ti salverò, Giorgina. Tu l’hai già fatto, mi hai salvato tanto tempo fa. Ora tocca a me.


Tiziano Scarpa


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