Il 27 aprile 1950, con due giornate di anticipo sulla chiusura del campionato, il Grande Torino si aggiudicò il sesto titolo consecutivo: dalla ripresa della Serie A dopo la Nostra guerra, lo scudetto non si era mai lasciato scucire dalle maglie granata.
L’undici di Ferruccio Novo in patria era considerato semplicemente invincibile; Inter, Juve e Milan, beffate per l’ennesima volta, non potevano aspettare altro che si sfaldasse per ragioni di età.
L’anima del gruppo, il centravanti Guglielmo Gabetto, era un torinese purosangue, alto e magro, che portava i capelli schiacciati all’indietro dalla brillantina, come i campioni sudamericani dell’anteguerra. I tifosi lo chiamavano “il Barone”. Con le sue trentaquattro primavere alle spalle, ormai dispensava col gontagocce le reti spettacolari che l’avevano reso celebre: otto nel penultimo campionato, appena cinque in quello appena concluso. Gabetto aveva deciso che da settembre sarebbe rimasto in pianta stabile dietro il bancone del bar Vittoria, che gestiva insieme al numero 11 Franco Ossola: piuttosto che chiudere mestamente una carriera gloriosa in provincia, il “Barone” preferiva servire caffè e vermouth ai tifosi granata.
Anche i dioscuri schierati alle mezze ali, il capitano Valentino Mazzola e l’inseparabile Ezio Loik, avevano entrambi trentun anni, un’età in cui il più celebre centrocampista d’Europa e il suo degno compagno di fatiche potevano ritenersi all’apice della carriera. Stessa età per l’ala destra, il vicentino Romeo Menti, un anno in più per il mediano Grezar da Trieste: entrambi non erano più veloci come un tempo, ma restavano tra i più forti della Serie A nei rispettivi ruoli.
Il Grande Torino continuava a vincere invecchiando pian piano, con equilibrio e struggimento: si avvicinavano ai trent’anni anche il ruvido terzino destro Ballarin, il mediano vercellese Castigliano e il numero 5 Rigamonti, un bresciano che ardeva di passione per le motociclette veloci.
Gli unici che si potessero dire ancora giovani erano Virgilio Maroso, terzino sinistro di classe, e il portiere Bacigalupo. Questi, proveniente da una schiatta di sportivi del Ponente Ligure, aveva cucita addosso la fama di scapestrato: si narravano leggende sull’appartamento di via Nizza che occupava insieme al “centauro” Rigamonti e a Danilo Martelli detto Dino, elemento in grado di farsi valere in tutti i ruoli del quadrato di centrocampo, e cantante per passione.
Gli invincibili granata costituivano da diverse stagioni l’ossatura della nazionale. Parve quindi naturale che tutti loro, dal vecchio centravanti impomatato al portiere viveur, venissero convocati a vestire d’azzurro in occasione del Campionato Mondiale del 1950, il primo dopo la Nostra Guerra.
La nostra spedizione in Sud America era chiamata a difendere un antico primato: parlavano per noi le due coppe Rimet ottenute negli anni ’30 e il torneo internazionale vinto in Svizzera nel 1942, l’ultima competizione prima del conflitto. A quel tempo Mazzola e Loik facevano coppia al Venezia, e ci eravamo imposti in buona parte grazie alle prodezze di quei due giovani alle prime apparizioni in azzurro. Adesso che le due inseparabili mezze ali avevano tracciato un ciclo irripetibile in granata, chiedevamo loro il miracolo della maturità: vincere in Brasile, in barba a chiunque, per rendere grande l’Italia com’era grande il Torino.
Era la Patria che lo voleva.
Per celebrare degnamente il trionfo militare di cinque anni prima e dare lustro alla giovane repubblica.
Per fare gioire gli Italiani attaccati alle radio, e i compatrioti emigrati che avrebbero affollato gli stadi di San Paolo e Rio de Janeiro.
Per ribadire infine, con la definitiva conquista della coppa Rimet, che la nostra scuola calcistica era destinata a restare scolpita nei secoli, inarrivabile palestra di atletismo e d’ardimento.
Io avevo diciannove anni e dovevo ancora fare il militare, però diffidavo già delle parole d’ordine e dei proclami.
Il Toro era fortissimo, d’accordo, e la rosa dei ventidue azzurri sarebbe stata integrata da altri ottimi elementi: facevano parte del giro di quella nazionale a trazione granata anche il “signor Rovesciata” Carlo Parola, centromediano della Juventus, e il milanista Carapellese. A centrocampo giocava spesso l’altro rossonero Annovazzi, in attacco il giovane Boniperti era in grado di coprire felicemente tutti ruoli, dal centravanti preciso come un cecchino alla mezzala ispiratissima. Devoto solo alla fascia destra, invece, era il suo compagno in bianconero Muccinelli, un romagnolo esile e scattante, noto alla stampa sportiva come lo “Scoiattolo di Lugo”.
Affinchè al nostro attacco non mancassero valide alternative, il CT Ferruccio Novo avrebbe portato in Brasile anche Gino Cappello, il turbolento centravanti del Bologna, e una strana coppia di interisti: Amedeo Amadei, ex fornaio di Frascati che aveva lasciato la sua Roma strangolata dai debiti per continuare a segnare in nerazzurro, e il suo giovane collega Benito Lorenzi detto “Veleno”, che aveva combattuto nelle fila della X Mas.
Rivalità personali a parte, erano tutti fior di calciatori.
Eppure, per quanto si potesse dimostrare ottimismo, vincere in Brasile non sarebbe stato affatto semplice: i padroni di casa, imprevedibili nel gioco e sostenuti dal tifo di una nazione intera, facevano paura. Davano i brividi anche la Spagna, la storica fabbrica di talenti dell’Uruguay, e l’emergente Svezia. Ma il vero terrore, per me diciannovenne e per chiunque serbasse il senso della misura, era rappresentato dall’Inghilterra: era la prima volta che i maestri inglesi, gli inventori del gioco, accettavano di misurarsi con i comuni mortali in un Campionato del Mondo. Non eravamo mai riusciti a batterli, e in occasione dell’ultimo incontro amichevole ci avevano umiliati: facevano ancora male come schiaffi, le quattro reti a zero subite dagli azzurri due anni prima, e proprio a Torino.
I giornali ne avevano scritto come della peggiore tragedia sportiva delle ultime stagioni, e il vecchio commissario tecnico Vittorio Pozzo aveva dovuto rassegnare le dimissioni: giocava all’antica e si diceva che, senza il fardello tattico del suo metodo, l’Italia avrebbe potuto sprigionare tutta la moderna visione di gioco che il Torino esprimeva in campionato.
Nella primavera del 1950 speravamo tutti che il sistema a tre difensori di Ferruccio Novo portasse i suoi frutti, perché le maglie bianche dei nostri carnefici inglesi sarebbero riapparse in Brasile: se fossimo andati avanti nel torneo come ci competeva, prima o poi ce le saremmo ritrovate di fronte.
L’idrovolante “Cygnus” che trasportava in Brasile la nazionale di calcio interruppe le comunicazioni nel tardo pomeriggio del 2 giugno 1950.
Il velivolo, salutato dalle autorità alla partenza dall’idroscalo di Orbetello, aveva compiuto senza problemi il primo tratto della trasvolata: la squadra invincibile costruita sull’ossatura del Grande Torino era arrivata puntuale allo scalo tecnico nel bacino di Villa Cisneros, sulla costa del Sahara spagnolo.
Mentre il comandante Olivieri e il suo equipaggio controllavano che venisse imbarcato carburante bastevole al grande balzo verso il Nuovo Mondo, i calciatori, il commissario tecnico Ferruccio Novo e gli accompagnatori della Federazione erano stati visti sgranchirsi le gambe sul molo. Il capitano Valentino Mazzola, subito riconosciuto, aveva rilasciato una breve intervista a un corrispondente del principale quotidiano sportivo iberico. Mazzola aveva spiegato che sì, l’Italia andava in Brasile per vincere la Coppa Rimet e che no, il ruolo di favoriti non ci pesava. Aveva firmato qualche autografo, quindi gli azzurri e i loro accompagnatori erano risaliti a bordo.
La torre di controllo del bacino aveva registrato la partenza del “Cygnus” alle undici e un quarto, ora locale; in Italia la gente stava pranzando. Da quel momento, il marconista dell’apparecchio aveva cominciato ad avere problemi con la radio di bordo: al centro operativo di Pratica di Mare, gli ufficiali dell’aeronautica che controllavano il buon andamento del volo raccoglievano messaggi smozzicati che, però, accennavano a una trasvolata tranquilla.
La posizione dell’idrovolante era stata comunicata con regolarità fino alle diciassette e quarantasei, quando la voce del comandante Olivieri si era messa a gridare attraverso le tempeste elettrostatiche. Arrivava da un punto a qualche centinaia di piedi sopra l’Atlantico, e urlava che i motori erano in panne: a Pratica di Mare, gli ufficiali in ascolto erano sbiancati tutti insieme.
«Perdiamo quota… Manovra d’emergenza… Dio abbia misericordia…Viva l’Italia!»
Poi, più niente: la comunicazione era saltata, e non c’era stato verso di scoprire quale esito avesse avuto l’ammaraggio di fortuna.
Per un minuto o due, al centro operativo nessuno aveva parlato.
Gli ufficiali si fissavano l’un l’altro, oppressi dall’angoscia; si addensava sui loro berretti il presentimento della punizione in arrivo dallo Stato Maggiore. Perché presto, molto presto, qualcuno avrebbe dovuto comunicare la notizia: almeno per il momento, avevano perso ogni contatto con i campionissimi candidati a trionfare per la gloria del Paese.
Che il “Cygnus” galleggiasse placido fra le onde dell’oceano, o si fosse schiantato al momento dell’impatto, non c’era più tempo da perdere: era tempo di mettere in moto la catena delle ire funeste, e affrontarne le conseguenze.
L’incidente era destinato a tenere l’Italia col fiato sospeso, creando conseguenze difficili da immaginare: basti dire qui che, prima ancora del tramonto, impressero una svolta decisiva alla mia vita di ragazzo.