La mia guancia sinistra

di Gabriele Romagnoli su 12 mesi - Smemoranda 2005





Le donne hanno, talora, vene varicose alle gambe. Portano calze opache e contenitive, si operano dopo la quarantina, risfoggiano polpacci e caviglie inguianate di seta e voilà. A me, le vene varicose sono andate a intorcinarsi nella guancia sinistra, formando un “lago”. Questo è il termine tecnico usato dai primari di alcuni reparti di maxillofacciale sparsi per l’Italia. Il “lago” non è prosciugabile. A meno di voler ascoltare un paio di temerari suggerimenti. Non è un gran problema, solo una specie di rigonfiamento che cresce se sto a lungo chinato o bevo molti alcolici (e per fortuna non è possibile fare le due cose contemporaneamente). La guancia sinistra mi ha aiutato a capire meglio e al volo le persone. Mi ha procurato, anche, curiosi aneddoti che posso rivendermi nelle sere d’inverno, sempre molto apprezzati, perché tirano in ballo, tra gli altri, Bruce Willis, Madre Tersa di Calcutta e George Bush. È una storia che, da come era cominciata a Bologna, sembrava tragica. Le assegno un finale glorioso, nel suq di Sanaa, capitale dello Yemen. Essere scrittori dà questo privilegio: poter scegliere il lieto fine anche per la propria autobiografia. Se la guancia dovesse esplodere, non sarò lì a scriverne, comunque.
Per dodici anni della mia vita la questione non si pose. La guancia sbocciò improvvisa un mattino di primavera mentre frequentavo la scuola media. L’opinione degli esperti fu che me la fossi morsicata durante la notte, nel corso di un sogno movimentato. Il primo medico incaricato di dare una spiegazione all’anomalia concluse, mentre ero seduto di fronte a lui sul lettino: “Credo sia una forma tumorale. Speriamo benigna”. Mia madre mi riportò a casa. Lei era infermiera. Al primo giorno in sala operatoria le hanno messo in mano una gamba amputata da portare all’inceneritore. Ha acquisito una freddezza clinica che ho ereditato, stravolgendola. Sulla via del ritorno progettai un adolescenziale romanzo intitolato Stanza 357 (quella dove sarei morto, immaginavo un ospedale immenso) che mi avrebbe dato fama postuma e planetaria. Il fatto che il mio fumetto preferito sia Calvin & Hobbes appare, a questo punto, naturale. Ho vissuto in un mondo immaginario più di quanto abbia fatto nella realtà. E spesso ho la tentazione di stracciare il passaporto. Ma tocca tornare. E andare avanti. Sopravvissi anche al ferale dubbio del primo medico. Era soltanto un “lago”. Non esisteva operazione, neppure al laser, per ridurne la dimensione. Mi sono abituato alle domande della gente.
“Hai un ascesso?”
“Stai mangiando una caramella?”
Variante: una noce, una patata (!?).
Rispondo invariabilmente sì. Primo: perché la storia del lago e dell’impossibilità di aspirarlo è troppo lunga. Secondo: chi fa domande del genere, di solito non entra nella mia vita. La mia guancia sinistra è una cartina di tornasole. Mai avuto storie con donne che chiedono dell’ascesso, mai diventato amico di curiosi della caramella, noce, patata. Io non faccio domande. Amo quelli che non ne fanno. Possiamo andare avanti una vita e, di solito ci riusciamo. Per cui sono convinto che quelli a cui dico sì, ho un ascesso o una patata, non li rivedrò più. Poi qualcuno mi ricapita, magari un mese dopo. “Ancora quell’ascesso?”. E mi dà il numero del suo dentista. Impiccione ma gentile. Non si può (non) avere tutto. A farmi impazzire sono quelli che si ostinano a suggerire rimedi. Il più cocciuto (ma era un “fixer”, trovare rimedi era il suo mestiere) l’ho incontrato a Los Angeles, nel 1999. Ero lì per gli Oscar, era l’anno di Roberto Benigni. La sera prima della cerimonia finisco in questo ristorante italiano, il “Principe”. Il gestore mi prende in simpatia e mi trattiene dopo la chiusura. “Adesso – dice – andiamo a una di quelle feste selvagge della notte prima degli Oscar. Ce la trova Bill”. Bill arriva dopo pochi minuti. Ha una decapottabile blu cobalto, una giacca a righe e un’agenda che vale più delle due cose messe insieme. Per vivere, rimedia ai guai delle celebrità. Questo dice. Compone un numero di telefono. Riappende soddisfatto. Dice che verranno a prenderci. Devono controllare chi siamo. Andiamo in una villa dove, “capite”, c’è un telefono diretto che squilla alla Casa Bianca. Quelli che vengono per controllarci se ne vanno con una cassa di vodka offerta dal Principe, dopo averci scortati alla villa. Il posto è pieno di uomini giovani con le giacche a righe, ragazze giovanissime con l’accento russo. Al piano di sopra qualcuno rantola. Il padrone di casa speiga che “Francesca, maybe, o.d.ed”. Un “angelo custode” se ne sta prendendo cura. Quando l’angelo scende è una lettone di due metri. “Infermiera?”, chiedo pervaso da affetto filiale. Mi guarda sdegnata e risale. Ho offeso la sua professionalità. Bill mi offre cocaina sul tavolo di vetro. Dico che non posso. “La guancia?”, chiede. Questa non l’avevo ancora sentita. “Il naso – spiego – ho i capillari deboli. Mi fa sanguinare”. Lui risolve ogni problema, as usual. Estrae dalla tasca interna un cucchiaino d’argento, lo riempie, versa in un bicchiere di vodka, mescola e porge: “Salute!”. Butto giù e mi siedo di fianco a lui. Dice: “Se vuoi, conosco un chirurgo che ti sistema la guancia”. Né ascesso, né caramella: occhio clinico. Insiste: “Fa miracoli. Gli ho portato Bruce Willis”. Dico: “Non mi sembra che Bruce Willis abbia problemi”. Dice: “Non l’hai visto prima”.  Insiste. Quasi quasi mi fido. Cambio idea all’alba, quando mi racconta che lo stesso chirurgo ha “perfettamente” riattaccato la testa a una ragazza finlandese, dopo che le pale dell’elicottero privato di Dennis Rodman gliel’aveva staccata.
Qualche mese più tardi sono nell’Iowa per l’annuncio della candidatura alla Casa Bianca di George W. Bush. Invece di aspettarlo con gli altri cronisti al comizio nella fattoria previsto per le undici, alle nove sono davanti alla scuola dove farà una visita informale. Arriva l’auto blu. Lui scende e si trova davanti venti redneck e un tizio alto con una guancia più grossa dell’altra. Non esita, mi prende sottobraccio e comincia a camminare verso la scuola. Mi chiede se voterò per lui. Dico che sono italiano. Mi domanda che tempo fa a Roma. Prendo il cellulare: “Se vuole, m’informo”. Ci tiene davvero. In Italia sono le tre di notte. Chiamo la segreteria telefonica della mia casa vuota e lo informo che c’è il sole. Annuisce soddisfatto. Poi guarda la mia guancia e dice: “Stai masticando tabacco, eh?”. Siccome ho scommesso che sarà il futuro presidente e l’ho già preso in giro una volta, mi preparo a spiegare la storia del lago, ma lui mi anticipa, mette una mano in tasca, ne tira fuori una manciata di tabacco, l’inforna e dice: “Anch’io”. Ride soddisfatto, mi batte sulla spalla e, sgranchendo la mandibola, prosegue verso la scuola e il noto destino.
Se non si è creato complessi lui per la testa, figuriamoci io per la guancia. Tanto sapevo che qualunque difetto ha una nicchia nel mondo dove diventa un pregio. Tutto è davvero relativo e la prova l’ho avuta in Yemen, nel gennaio del 2004. Ero andato a seguire una conferenza sulla democrazia nei Paesi arabi, quel che si dice parlare del nulla. Mi alzo verso le dieci e mi dirigo verso il mercato di quell’incredibile città che è Sanaa. Accade spesso che, se tolgo gli occhiali e mi metto un cencio intorno al collo, mi scambino per arabo (soprattutto nei Paesi che arabi non sono). Dev’essere la pelle scura, la barba incolta o che ne so. Per cui non mi stupisco dell’espressione amichevole con cui venditori e passanti mi osservano. Solo che, a breve, l’entusiasmo tracima. “Mabruk!” comiciano a esclamare. “Complimenti!”, in arabo. Si passano parola. Ragazzini escono dai vicoli per vedermi e mi applaudono. Non dicono neppure: “Baggio!”. Non mi festeggiano in quanto italiano, ma in quanto me. Oltre a “Mabruk!” comincio a distinguere un’altra parola: “Qat!” Poi uno mi sfiora la guancia, riverente e sorridente. È allora che capisco. Nello Yemen esiste questa droga leggera nazionale, il qat, un fogliame che viene masticato per ore nel pomeriggio e mai sputato fino a sera. Si forma una palla verdastra che viene depositata nella guancia (solitamente sinistra) e ruminata con crescente soddisfazione. Detto così sembra facile. In realtà è piuttosto disgustoso e complesso, specie per i neofiti. Gli yemeniti cominciano da ragazzini e impiegano anni a farlo come si deve. Gli stranieri di passaggio provano e, per lo più, sputazzano a breve, o fanno finta. Non si era mai visto prima un forestiero con una perfetta palla di qat, per di più al mattino, quando ancora gli indigeni non pensano che a comprarlo per stordirsi più avanti. Ho cominciato a sorridere, ma a labbra strette, per non rivelare che non avevo i denti verdi e, quindi, neppure un filo di qat in bocca. Ho percorso il suq come un sultano in visita. Mi hanno regalato fogliame e perline. C’è sempre un posto dove puoi sentirti straordinario, devi solo lasciare che quel posto ti trovi. Questo è, più o meno, quel che mi disse Madre Teresa quando le domandai perché era rimasta a Calcutta.


Gabriele Romagnoli


Vedi +

Smemoranda 2005


Vedi +