La notte della Repubblica

di Giampaolo Pansa su 16 mesi - Smemoranda 1993





Da bambino la notte mi faceva paura. Non volevo dormire. Temevo il buio. 
Mi dicevo: “E se una volta chiusi gli occhi, non riesco ad aprirli più?” se li chiudevo mi capitava di vedere il diavolo, uguale a quello disegnato sul catechismo. Oppure Rigoletto, proprio lui, il gobbo dell’opera di Verdi.
Il mio papà mi aveva portato a vedere il Rigoletto sul campo di calcio del Csale Football Club (campione d’Italia nel 1914): lo dava uno dei Carri di Tespi del fascismo, compagnie di giro per le città di provincia. Il gobbo mi aveva terrorizzato. E avevo la strizza di vedermelo comparire nel sonno. Eppure dovevo dormire. Tutti i bambini dovevano dormire.
Mia nonna era inflessibile: “La notte si dorme, tutti al Cinema Bianco, via Letto, numero Cuscino”. Se non volevo dormire, la nonna mi investiva di minacce politiche.
Proprio così, politiche. La nonna era rossa, odiava i fascisti, soprattutto i fascisti dell’ultima ora, quelli di salò.
Diceva: “Se non dormi, ti verrà a prendere la Brigata Nera”. 
Oppure: “La notte girano i mongoli che stanno coi tedeschi. Se non dormi, sparano con la sega di Hitler” (era una mitragliatrice, e nient’altro).
O ancora: “Dormi altrimenti viene Pippo l’Aviatore e ci bombarda”.
Questo Pippo era un aereo alleato, piccolo, isolato, che lanciava mini-bombe sulle strade, soprattutto di giorno, per la verità. Lo temevo meno degli altri incubi notturni, perché anch’io stavo con gli alleati che, un giorno, ci avrebbero liberati. Quel giorno, finalmente, arrivò.
Era una fine di aprile, anno 1945. Avevo nove anni e mezzo. 
Stavo seduto sull’ingresso del negozio di mia madre, al centro di una piccola città del piemonte. Eccoli, i liberatori!
Ma erano liberatori italiani, non americani. Erano partigiani.
Passò il comandante della I Divisione Garibaldi. Viaggiava su una camionetta tedesca, preda di guerra. Stava ritto in piedi, con il pugno stretto sul parabrezza.
Era piccolo, massiccio, ben costruito. Indossava una divisa inglese. In testa un basco nero del savoia Cavalleria con la stella rossa (ricordate il Che Guevara). 
Infine, aveva dei baffi splendidi, mustacchi da cavaliere. Mio padre, operaio del telegrafo di tendenze socialiste, mi chiese: “Sai chi sta passando?” Non sapevo che il guerriero coi baffi fosse Pompeo Colajanni, detto “Barbato”, il padre del Luifgi Colajanni oggi deputato europeo del PDS. Così, fresco com’ero di una lettura divorante dei Tre moschettieri, risposi: “passa Porthos!” 
“Macchè” – replicò il papà “Passa l’Italia dei partiti antifascisti che ci ridasranno la libertà”. Proprio così disse: l’Itallia dei partiti, la libertà…
Fu una rivelazione fatale. E mo fece crescere nel culto dei partiti, della politica, della libertà che la politica ci aveva conquistato. La notte non mi faceva più paura. stavo vivendo l’alba e poi il giorno pieno della repubblica . 
Ma sì, repubblica dei partiti, repubblica che sarebbe diventata rossa, repubblica antifascista, repubblica dei cittadini.
Che passione, che entusiasmi, che speranze!
Non divenni ami un militante, ma rimediai con un mestiere che non mi sembrava molto diverso: il giornalista politico. D’accordo, giornali di testate borghesi, ma sempre con direttori liberal che mi consentirono di raccontare la politica italiana senza dive,ntare un velinaro, un marchettista, uno yuppie tiratissimo a costruire una carriera servendo i padroni partitici d’Italia.
E mentre tentavo di mantenermi sulla retta via professioale, vidi scendere di nuovo la sera sulla repubblica. Se debbo indicare una data cruciale, la memoria me ne suggerisce, imperiosa, una: il 12 dicembre 1969. Stavo a milano e lavoravo per la Stampa di Alberto Ronchey.
Dalla redazione mi telefonarono: “Corri in Piazza Fontana, è scoppiata la caldaia di una banca. Ci sono dei feriti.”
Ci andai e ebbi di fronte l’inferno. Un vigile urbano stava portando fuori dalla Banca dell’agricoltura un ragazzo con la gamba maciullata: mi pare si chiamasse Enrico Pizzamiglio. Era già buio. Una sera e poi una notte milanese di dicembre.
Nebbia. Smog. I deboli fari del tram.
Affanno, dolore, rabbia, paura. Poi lo stesso inferno tere giorni dopo. Il corpo dell’anarchico Giuseppe Pinelli nel cortile della questura, sulla neve sporca.
Altre corse nella notte. E di nuovo rabbia, sgomento, terrore di un futuro ignoto che stava cominciando. Gli anni che seguirono si rivelarono, quasi sempre, anni notturni. Certo, l’Italia che cercava il sole della buona politica c’era, combatteva, resisteva.
Ma la notte vinse. E coprì la repubblica. La notte del partitismo arrogante. Dell’affarismo politico. Del Tangentismo. Dello sfascio istituzionale. Della mafia.
Dell’incrocio schifoso di politica e mafia, la polimafia. Dei delitti eccellenti. E delle stragi.
Quante volte ho pensato a mio padre a quel giorno di aprile mentre passava il comandabnte “Barbato”! Aveva sbagliato tutto, l’operaio >Pansa Ernesto nel consegnare al suo figliolo quel pronostico di speranza?
Ma no, forse no. Perché non sperare? E perché non combattere per dar corpo a una speranza?
Anche il voto politico di questo aprile 1992 mi aiuta a sperare. Certo, è ancora notte sulla repubblica italiana. Ma qualche bagliore si intravede. 
L’alba è lontana e tuttavia sicuramente verrà. Basta crederci. Basta Insistere.
Basta non avere paura di questo buio che ancora ci assedia.


Giampaolo Pansa


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