Di Francesca, Mario conservava un paio di ballerine dimenticate sul fondo dell’armadio, un romanzo rosa aperto sul termosifone del bagno e una chiazza di caffè sul tappeto del salotto. Mario non gettò le scarpe e tantomeno il libro, con la segreta e irrazionale speranza che se avesse lasciato tutto come stava, Francesca prima o poi sarebbe tornata.

 Cambiò idea quando casualmente la reincontrò due mesi dopo il suo ultimo saluto vergato sullo specchio del bagno, che usciva da un locale avvinghiata al suo nuovo uomo, un energumeno in divisa da motociclista con i tatuaggi sul collo. Entrambi avevano l’espressione di chi non ha più niente da chiedere al mondo se non un’altra birra e un letto dove scopare. 

Tornato a casa, Mario prese scarpe e libro e li infilò nel sacco della spazzatura insieme con il tappeto macchiato e il primo sabato libero andò a L’angolo dell’usato per cercarne uno nuovo. L’angolo dell’usato erapiùuna discarica che un negozio, con vecchi elettrodomestici dalle spine fuori norma, soldatini sfusi, animali in peltro, uova di marmo, libri scoloriti e strappati, ma in un angolo era stata deposta da poco una pila di tappeti arrivata da un albergo demolito. Mario fu subito affascinato da uno rettangolare tre metri per due. Era diviso a riquadri con disegni rossi e neri. Bello da mozzare il fiato.. 

 “Da dove viene?” chiese.

Il proprietario, un ultraottantenne con una lunga chioma di capelli bianchi spostò il toscano spento all’angolo della bocca. “Persiano purosangue. Un Bakhtiari. Trecentomila nodi al metro quadrato, come minimo. Fidati che fai un affare.”

Contrattarono e Mario riuscì a portarselo a casa per il doppio della cifra che aveva avuto intenzione di spendere, ma sempre meno di quello che pensava valesse. Steso sul pavimento del salotto, i colori sembravano brillare. Il disegno era composto da quaranta formelle quadrate inscritte in una cornice, ricamata in fili rossi, neri, bianchi e verdi scuro. La cornice era decorata a fiori bianchi, mentre ciascuna formella racchiudeva salici e cipressi stilizzati, disposti ogni volta in modo differente accanto a quelle che parevano enormi foglie bianche e nere. 

Più lo guardava, più Mario riusciva a percepirne i particolari minuti, le differenze tra un disegno e l’altro che rivelavano l’abilità dell’artigiano. In uno dei riquadri d’angolo scoprì il disegno  di due colonne che reggevano un arco semicoperto da un albero. L’ arco era tessuto con un filo di un nero più lucido e più rigido al tatto. Lo percorse ancora con il dito, provando come un brivido. Quando scese la sera, invece dell’ alogena Mario accese una fila di candelette Ikea. La loro fiamma tremula sembrò far muovere i disegni e dar loro vita. Rimase a osservarli seduto al centro del tappeto sino a quando le candele si consumarono. 

Allora si addormentò. 

Sognò di volare su un’impervia catena montuosa dalla scarsa vegetazione. Qua e là apparivano tracce di insediamenti umani come edifici in pietra e minareti. Poi il suo punto di osservazione si abbassò verso terra, scivolò all’interno di una stretta gola rocciosa, cabrò e strinse su un edificio quadrato che sorgeva dalla parete di roccia circondato da bassi giardini. Dall’edificio spuntavano torri sormontate da guglie color bronzo che riflettevano il sole al tramonto. Una moschea, pensò Mario. Sapeva di stare sognando e si sentiva totalmente immerso in quell’esperienza. Ed esilarato. 

Il suo punto di vista curvò dietro la parete occidentale della moschea e si fermò, librandosi a un paio di metri da terra. Davanti a lui, protetto dall’ombra di salici dalle foglie color argento, vi era un arco di pietra bianca che protrudeva dalla parete della moschea. Al centro, accucciata con il volto verso la parete, vi era una figura femminile vestita con abiti di seta damascata. Un velo scuro le copriva la testa e le scendeva sino ai piedi nudi dalle unghie dipinte di verde scuro. Percependo la sua presenza la donna cominciò a voltarsi.

Mario si svegliò. 

Era supino sul tappeto ed era l’alba. Recuperò una vecchia lente d’ingrandimento. Con quella esaminò il disegno dell’abside nella formella consumata. Riuscì a vedere le decorazioni invisibili a occhio nudo tracciate sulle colonne, foglie e fiori, identiche a quelle che aveva sognato. E poi, accanto alla colonna di destra, semicoperta dai rami stilizzati del salice, distinse l’ombra di una figura umana, la silhouette di una donna inginocchiata.  

Mario rimase seduto sul tappeto a riflettere. I sogni non si avveravano. Se sognavi qualcosa significava che l’avevi già visto in precedenza, il resto era solo una coincidenza. Forse, si disse senza crederci del tutto, aveva notato il disegno prima di addormentarsi e gli si era impiantato nella mente.  

Mario accese Internet e fece una ricerca sui tappeti bakhtiari. Prendevano il nome dalla regione iraniana di Chahar Mahaal-e Bakhtiari, che secondo Wikipedia era prevalentemente montuosa. E i monti della foto sembravano proprio quelli del suo sogno, anche se non poteva esserne certo. Nella foto di una moschea vide un’abside simile a quella ricamata sul tappeto e scoprì che veniva chiamata mihrab e serviva per indicare ai fedeli la direzione della Mecca. Anche tutto questo era una coincidenza? Lui non ricordava di aver mai saputo niente di Iran o moschee, ma certo negli anni aveva letto o visto in televisione qualcosa in proposito. Era possibile che la sua mente avesse associato i ricordi nascosti con il tappeto, formando una visione chiara. 

Ma la spiegazione non lo soddisfaceva. Qualcos’altro stava accadendo, qualcosa che lo attirava e spaventava in parti uguali. Prese un cuscino dal letto e lo portò sul tappeto insieme con una coperta. Voleva riprovare, e se non avesse sognato niente di interessante avrebbe lasciato perdere. Altrimenti… Altrimenti non lo sapeva. 

Il sognò andò al di là delle previsioni. Cominciò direttamente da terra. Mario non stava più volando, ma camminando all’interno del giardino che circondava la moschea. La temperatura era mite, il vento portava odore di fiori che non conosceva. Spostando gli ultimi rami si trovò proprio di fronte al mihrab e vide che la donna era ancora accucciata sotto di esso. Capì che non era inginocchiata a pregare come gli era sembrato in un primo tempo, ma stava cucendo qualcosa. 

Un tappeto. 

Il suo tappeto. 

La donna nella mano destra aveva un lungo ago ricurvo con il quale infilava un filo sottile nella trama. Il filo si ruppe e le donna lo lasciò cadere. Poi, con un gesto rapido, infilò la mano sotto il velo che le copriva la testa. Capelli, capì Mario. Sta cucendo con i suoi capelli. Erano quelli i fili neri e lucidi che Mario aveva sfiorato con il dito, diversi da tutti gli altri.

In quel momento la donna si voltò. Il velo le lasciava scoperti solo gli occhi neri e profondi. “Chi sei?” gli chiese. “Uno spirito?”

Mario rimase imbambolato per qualche istante. Non si aspettava di essere visto, convinto di essere solo uno spettatore nel suo sogno. Si leccò le labbra secche e rispose. “No. Sono un uomo.”

“Se sei un uomo, non dovresti essere qui. E’ stato deciso che io passi sola la mia ultima notte. Ma so che stai mentendo. Nessun uomo è come te. E nessun uomo di carne avrebbe potuto superare le guardie e le mura.” 

“Non ti capisco. Io… credo di stare sognando.”

Gli occhi della donna cambiarono espressione, e Mario capì che stava sorridendo. “Forse il mondo altro non è che un sogno, spirito.”

“Dove siamo?” chiese Mario.

“Siamo a Shahr-e-Kord, anche se da qui la città non si vede. E dall’altra parte della montagna.” E indicò. “Parte del regno di Persia, governato con infinita saggezza dal grandissimo Nasiru’d-Din Shah, che Allah lo protegga.”

Mario parve cogliere una nota di derisione nella voce della donna. “Non ti piace il tuo scià?”

“È a lui che non piaccio io. E quello che dico. Non ama che racconti che le donne possono leggere e studiare il Corano, e che io mi sia tolta il velo in pubblico. Per questo ha deciso che io domani sia giustiziata. Questa è la mia ultima notte su questa terra.”

“Mi dispiace” disse Mario, impacciato. Non sapeva come reagire a una notizia del genere. “Posso chiedere come ti chiami?”

La donne parve sorridere ancora. “Tahirih, ma so che già conosci il mio nome”. Tornò a cucire il tappeto. “Devo terminare prima che passi la notte.”

“Che cosa stai facendo?” chiese Mario avvicinandosi di un passo.

La donna gli mostrò l’angolo del tappeto. “Sto lasciando un piccolo segno della mia presenza su questo mondo. Vedi?” disse indicando in minuscolo disegno della figura umana, ancora incompiuto. “Questa sono io. E forse sarà l’unica cosa che mi ricorderà a chi verrà dopo di me. Dimmi, spirito, sarò ricordata?”

Fu in quel momento che Mario si svegliò nuovamente. Era giorno fatto e timbrò in ritardo al lavoro. Ricordava tutto, anche i profumi che aveva respirato e il suono musicale della voce di lei. Tahirih. Tahirih. E risentendo l’eco delle sue parole capì che Tahirih aveva parlato in arabo, e altrettanto aveva fatto lui. E anche se adesso non sarebbe stato in grado di riprodurre un solo suono, nel sogno era stato in grado di comprendere tutto.

Quella notte la magia si ripetè. Fu di nuovo davanti a lei, ed era ancora il tramonto. E fu sempre lo stesso tramonto nelle notti a venire. Perché anche se nel mondo di Mario passavano i giorni, in quello di Tahirir il tempo scorreva lento come pece. Tahirir gli raccontò la sua vita, la sua infanzia all’ombra di un padre amorevole che le aveva permesso di studiare, e la gioventù passata a lottare perché le donne potessero crescere libere come lei. E poi l’imprigionamento e la condanna a morte. Mai una volta Tahirih mostrò paura per quello che le sarebbe accaduto, o rimpianto, e mai si dimostrò incredula di fronte ai racconti che Mario le faceva del suo mondo. Per Mario, le giornate persero rapidamente d’importanza di fronte ai momenti che passava con Tahirih. Soprattutto da quando lei aveva accettato di togliersi il velo e lasciare che lui le vedesse il viso. Non si erano nemmeno mai toccati, ma per Mario quel gesto era stato quanto di più intimo avesse mai vissuto con una donna. La amava, sì, e voleva trascorrere il resto della sua vita con lei, sulle montagne dello Zagros, sfruttare al massimo il tempo immobile che si regalavano a vicenda. Per fortuna esistevano i weekend, pensò rientrando a casa dal lavoro un venerdì sera. Poteva dormire sino a tardi, stare con lei fino a tardi. Ma arrivato al suo pianerottolo, vide che la porta era socchiusa e si accorse che dall’appartamento proveniva il suono di una risata maschile. Scoprì seduto in cucina il centauro tatuato che dava fondo alla sua unica bottiglia di liquore  e Francesca che frugava nella zuccheriera dove Mario teneva la scorta d’emergenza. Non gli aveva mai ridato le chiavi.  

Francesca lo fissò. Aveva il trucco sfatto e un occhio nero. “Dove hai messo i soldi?” disse solo.

 “Non ce ne sono.” Balbettò Mario, confuso e preoccupato di fronte alla devastazione di Francesca. “E tu non dovresti essere qui con lui“ disse

Il centauro gli si parò di fronte. “Perché non mi butti fuori?”

Francesca si affrettò a mettersi in mezzo. “Lascialo stare” disse preoccupata. “Troviamo qualcosa da vendere.”

“Non c’è niente qui” brontolò il tatuato.

“Aspetta, aspetta” Francesca corse in soggiorno e vide il tappeto. “Guarda quello! Non c’era quando sono andata via.” Si chinò a esaminarlo. “Possiamo tirarci su dei soldi” disse con sollievo.

Le peggiori paure di Mario si materializzarono di colpo “No!” gridò. “Prendete quello che volete ma non quello.”

Il centauro lo afferrò per il colletto. “Forse non hai capito bene come stanno le cose” gli alitò fetido sul viso. “Noi prendiamo quello che vogliamo, e tu non rompi il cazzo.”

Mario non aveva mai fatto a botte in vita sua. Nemmeno a scuola, nemmeno a militare. Ma non poteva perdere Tahirih, non così. Senza pensare chiuse il pugno e colpì il centauro sul naso. 

Il centauro quasi non se ne accorse e sorrise. “Adesso ci divertiamo.”

 

Mario si appoggiò al muro della moschea. Si sentiva esausto. I contorni del mondo sembravano sciogliersi. “Ciao Tahirih” disse.

Lei alzò gli occhi dal ricamo. “Sembri triste” disse.

“Io… ho fatto un pasticcio. È difficile da spiegarti. Ma…” Scosse la testa. “Non voglio rovinare questo momento. Sai cosa vorrei invece?”

“Dimmi.”

“Stare con te per sempre.”

“Allora fallo”

“Io… non so nemmeno se sei reale, Tahirih.”

Tahirih gli si avvicinò e per la prima volta gli prese la mano. La baciò delicatamente da oltre il velo. “Ha importanza?”

 Mario sorrise. “No, non ce l’ha.” 

E tra poco saprò tutto quello che c’è da sapere, aggiunse dentro di sé. Guardò il cielo al tramonto: era bellissimo.

 

All’ora di chiusura, all’Angolo dell’Usato era rimasta solo una donna, china su un tappeto dai colori vividi. Il proprietario posò il mozzicone di toscano tutto masticato. “Signora, devo chiudere. O compra o torna domani.”

La donna alzò lo sguardo. “Lo compro se non mi fa spendere un capitale. È bellissimo, sa?”

Il proprietario annuì senza aprire bocca. Se avesse detto la verità, ovvero che quel tappeto lo aveva comprato dall’asta giudiziaria, la cliente sarebbe scappata a gambe levate. Un suo amico poliziotto gli aveva raccontato che ci avevano trovato sopra un cadavere con la testa spaccata. Era stata la moglie del morto con il suo nuovo amichetto, e adesso stavano tutti e due in galera. E che gli venisse un accidente, se non era sicuro di averlo venduto lui quel tappeto al tipo morto. Giusto un paio di mesi prima che lo accoppassero.

“E poi mi piacciono i particolari. Io me ne intendo di tappeti, sa?” continuò la donna, che aveva evidentemente voglia di chiacchierare. “E so anche che qualcuno lo ha rammendato, ma ha fatto un lavoro perfetto.” Girò un angolo del tappeto verso di lui. “Vede?”

“Senza occhiali non vedo niente, signora.”

“Chiunque sia stato aveva una bella mano.” Disse la cliente. “Ha ricamato un porticato. E sa cosa? Era anche romantico.”

“Perché?” chiese il proprietario, curioso suo malgrado.

“Perché ci ha disegnato due figure. Un uomo e una donna, sembra. E si stanno abbracciando.”

       FINE


Sandrone Dazieri


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