Da quando aveva comprato quella grossa agenda, dalla copertina nera di tela, Coco vi annotava tutto quello che gli accadeva e faceva tutti i giorni. Anche le sue riflessioni. Soprattutto le sue riflessioni. Quell’agenda gli aveva cambiato la vita. Adesso Coco poteva davvero capire in che modo viveva e pensava. Anzi, meglio ancora: adesso poteva valutare con la precisione di un funzionario pubblico il proprio declino. Giorno dopo giorno. Bastava solo che rileggesse quello che egli stesso aveva scritto.
Dopo essersi alzato, e prima ancora di aver preso un caffè, aveva scritto sulla sua agenda: “Svegliato ore nove e cinquantadue”. Si alzava sempre più tardi, e anche quella mattina sua madre non mancò di farglielo notare. Stava stirando. Lo faceva di mestiere, stirava a domicilio e poi faceva le pulizie negli studi di alcuni medici e avvocati del quartiere, a Trastevere.
“Non ho un cavolo da fare”, rispose. “Perché dovrei alzarmi presto, eh? Me lo dici?”
“Potresti…”
“Cercarmi un lavoro, vero?”, la interruppe lui, entrando in cucina.
Tutte le mattine la solita manfrina.
“Dovrei fare come tutti quei coglioni, vero? Dillo, dai, che non sono come loro, io! E non voglio nemmeno assomigliargli!”
Si era comprato quell’agenda in una cartoleria di Vicolo della Campana, mercoledì 17 febbraio, dopo aver letto la lettera di Barbara. “Ai tuoi messaggi risponde il silenzio. Non ce la faccio a chiamarti. Per dirti che cosa, poi? Lo sai, Giovanni, tu fai parte delle persone che non riesco a perdere, quelle alle quali voglio bene. Però non riesco a dirti ‘Ti amo’.”
“Troia!” aveva borbottato rileggendo la sua lettera una seconda volta.
Barbara gli aveva chiesto tempo. Per riflettere su di sé, su di lui, su di loro, sulla loro storia. Si conoscevano fin dai tempi del liceo, da quando erano entrambi sedicenni. Avevano filato a lungo, poi due anni prima si erano persi di vista. In seguito, una sera, il 30 gennaio scorso, lei gli aveva telefonato. Le cose non le andavano bene. Aveva bisogno di vederlo.
“Vieni. Ti prego.”
Voleva vedere lui, Giovanni Coco. Nessun altro. E Coco sapeva perché. Non era uno qualunque, lui.
Non aveva esitato neppure un secondo. Dopo un quarto d’ora, era già davanti alla fontana di Piazza Navona. Impaziente di rivedere Barbara.
Barbara. I suoi occhi, il suo sorriso da madonna.
L’aveva stretta tra le braccia, poi dopo averle accarezzato i capelli le aveva sollevato il viso e l’aveva baciata. Lentamente, a lungo. Come due anni prima. Quando l’aveva riaccompagnata davanti casa sua.
“È così semplice?” aveva riso lei.
“Sì, è così semplice. Ti amo.”
Di tempo, in seguito, ne aveva passato con Barbara. A parlare per notti intere. A bere gin tonic. A fantasticare su possibili futuri. A progettare viaggi, lontano, via da quel fottuto paese di merda. Loro, tutti e due, avrebbero costruito un mondo nuovo, percorrendolo tutto. Non erano tipi qualsiasi, loro due. Era per questo che si erano ritrovati. Che lei l’aveva chiamato. Che lui era andato da lei.
“Ho voglia di te”, le aveva detto.
Erano passati otto giorni.
Con la punta delle dita Barbara aveva accarezzato Giovanni su una guancia, poi gli aveva dato un bacio furtivo sulle labbra.
“Lasciami ancora un po’ di tempo, Giovanni. Ancora un po’…”
E poi era arrivata la sua lettera. “Perché ti dico ogni volta che sto così male? Perché con te non riesco mai ad andare fino in fondo alla nostra storia, quale che sia?”
“Troia” aveva ripetuto, questa volta a voce più alta.
Uscendo dalla cartoleria di Vicolo della Campana, era entrato in un bar e aveva ricostruito nei minimi particolari la sua vita a partire da quell’appuntamento del 30 gennaio con Barbara. Al 15 febbraio, nella pagina degli appunti, aveva incollato la lettera di Barbara. E sotto aveva scritto: “Sono sull’orlo di una crisi di nervi”.
Adesso erano passati tre mesi, tre esatti che non riceveva più notizie da Barbara. Dopo la sua lettera, non pensava che l’avrebbe rivista. Neppure che si sarebbero sentiti. Lui non era uno qualsiasi. Non si sarebbe abbassato a fare una cosa del genere. “Che marcisca pure nel suo ‘mal di vivere’” si era detto. “E quando si rifarà viva, le farò vedere io chi sono!” Questo, però, non l’aveva scritto nella sua agenda. L’aveva soltanto pensato.
Ma Barbara non richiamò.
Il 15 marzo, il primo “mesiversario”, aveva scritto sull’agenda: “Niente. Non mi ha scritto nemmeno una parola. Non mi ha telefonato. Potrebbe anche essere morta. Mi dovrò abituare a vivere come se ciò fosse normale”.
Ma non riusciva ad abituarsi.
Ogni mattina annotava l’ora alla quale si svegliava. Poi, sotto, scriveva: “Niente”. Il 22 marzo scrisse: “Quante cose non le ho detto. In fondo, il terrore di perderla adesso non nasce dall’ansia di ‘possederla’, ma dalla paura di non poterle più dire queste cose. Quali sono queste cose adesso non lo so, ma arriverebbero come un torrente in piena se fossi con lei”.
Scrivere cose così gli faceva venire le lacrime.
Poi, ieri a mezzogiorno, quello stronzo di Luca gli aveva raccontato che Barbara usciva con un altro. Un francese. Un pittore che viveva a Villa Medici.
“Dove vai?” gli chiese sua madre.
“In palestra.”
“Torni per cena?”
“Non lo so.”
Nella sacca aveva ficcato il fucile di suo padre. E alcune cartucce. Nient’altro. Il fucile e le cartucce. E la sua agenda.
Scese le scale, controllò la cassetta della posta. Cerano soltanto alcune bollette e una cartolina di sua sorella, spedita da Marsiglia. Riproduceva Porto Vecchio e sotto, in un piccolo medaglione, Nostra Signora della Guardia. “Tutto bene. Il tempo è bello. Marsiglia è una bella città. Mauro e io ci amiamo tantissimo. Vi abbraccio. Anche Mauro.”
“Che stronza!”
“Niente” aveva scritto ancora una volta sulla sua agenda. Prima ancora di scendere, di aprire la cassetta delle lettere. Perché ne era sicuro: Barbara non gli avrebbe scritto mai più, non l’avrebbe chiamato mai più. Gli aveva chiesto tempo. Lui le aveva dato tempo. E adesso usciva con un pittore francese di Villa Medici. Lei il suo tempo lo sapeva usare davvero bene! Con un cazzo di pittore francese.
Niente. “Non ci si toglie la vita per amore di una donna. Ci si toglie la vita perché un amore, non importa quale amore, ci rivela nella nostra nudità, nella nostra miseria, nel nostro essere indifesi, nella nostra nullità.” Aveva scritto queste cose dopo essersi lavato, rasato, vestito. 15 maggio. Santa Giulia, precisava l’agenda. “Santa Giulia prega per me” aveva aggiunto sotto.
Salì in macchina, una Fiat 128 bianca. La macchina di sua sorella. Trovò nel vano portaoggetti una cassetta dei Pink Floyd e la inserì nel mangianastri. I Pink Floyd gli facevano schifo. Partì facendo una sgommata, in modo che la gente si voltasse a guardarlo. Dopo aver guidato un’ora abbondante per tutta Roma, senza una meta precisa, si diresse in Via del Corso. Procedeva adagio, osservando la gente sui marciapiedi. Dove andavano? Per quale motivo? Erano felici? Infelici?
“Che cos’è questo cancro che logora la vita?” si chiedeva. Quella era la sua domanda, la vera domanda. Diede un piccolo colpo di acceleratore avendo visto una vecchietta che attraversava la strada. “Cinquecento punti” pensò. Quello era uno dei giochi che faceva con Luca. Il numero di punti era quello che valeva una persona che potevano investire con l’automobile. “Non dire cazzate! Stai parlando di una vecchia. Varrà cento punti. E forse nemmeno”.
“Farabutto!” gridò lei.
Rise. “Facciamo centocinquanta, dai.”
Arrivato in Piazza del Popolo, seppe di aver preso la sua decisione. Gli occorreva soltanto un po’ di coraggio, tutto qua. Si fermò davanti alla chiesa di Santa Maria e tirò fuori la sua agenda. La appoggiò sul volante e scrisse: “Morire. Non voglio morire come uno qualsiasi. Tutti devono sapere come muore uno come me.”
Pensò a Barbara. Bisognava che anche lei sapesse. Così aggiunse: “Mi farò ammazzare dalla polizia”.
Chiuse l’agenda, la poggiò accanto a sé, poi tirò fuori il fucile, lo caricò e ripartì. I Pink Floyd continuavano ancora a suonare. Facevano vomitare. Questa volta, però, i Pink Floyd erano addirittura perfetti.
Coco fece un altro giro di Piazza del Popolo. Due tipi in Vespa procedevano affiancati. Dovevano essere due amici, di sicuro. Mentre andavano avanti parlavano. Coco accelerò e puntò dritto contro di loro. Non era più un gioco. Il parafango destro della Fiat sfiorò una delle Vespe. Il conducente perse l’equilibrio. La Vespa e il conducente si ribaltarono.
“Che figlio di puttana!” gridò l’altro a Coco.
Scese dalla motocicletta. L’amico rialzò la sua Vespa e la mise sul cavalletto. Si avvicinarono a lui, con fare minaccioso. Coco fece spuntare la canna del fucile dal finestrino e la puntò loro addosso.
“Smammate, figli di puttana! Altrimenti vi stendo.”
I due tizi si paralizzarono. Come chiunque altro lì intorno. Coco ghignò.
“Andate a chiamare i poliziotti. Che cerchino di prendermi, se hanno le palle!”
E ripartì.
Due auto della polizia a sirene spiegate lo intercettarono all’altezza di Piazza Colonna. “Eccoci, ci siamo” mormorò. Poi si chiese: “Perché morire?”. Non si era mai sentito così vivo come in quel momento. Mai altrettanto adolescente. Gli passarono per la testa frasi che non poteva più annotare sulla sua agenda. “Chissà… forse avrò appena il tempo di scrivere quella.”
Oppure un’altra: “Amore e morte. Vecchia storia”.
In Piazza Venezia bruciò un semaforo rosso e non riuscì a schivare un’Alfa Romeo – rossa, naturalmente – che arrivava dalla sua destra. Lo schianto delle lamiere risuonò come una campana a martello in tutto il quartiere. Coco uscì dalla Fiat, con il fucile in mano. Le auto della polizia si fermarono di botto e sei poliziotti gli vennero incontro di corsa. In lontananza sentì altre sirene. Sparò un colpo, alto rispetto alla testa dei poliziotti.
“Forza, venite! Fatevi sotto, pezzi di merda!”
Attorno a lui si era tutto fermato. Anche i poliziotti. Avevano ripiegato dietro una delle loro auto e avevano sfoderato le pistole. Coco sentì i passanti gridare. Poi la prima intimazione ad arrendersi. Sparò una seconda volta, mirando questa volta al lampeggiatore dell’auto a lui più vicina. La centrò in pieno, e provò una certa soddisfazione.
“E allora?” si chiese.
“E allora tutto ciò mi fa schifo.”
La prima pallottola gli trapassò la spalla. Il dolore che sentì gli strappò un urlo. Sparò una terza volta, con gli occhi chiusi. Poi ancora una quarta.
Un’altra pallottola gli si conficcò in corpo.
“Barbara”, pensò, “oggi di sicuro so più cose io di te sul dolore.”
Crollò a terra.
“Non esiste il male di vivere. Esiste soltanto il male, Barbara.”
Traduzione di Anna Bissanti