Chi ha conosciuto l’amore assoluto? Ma assoluto sul serio. L’amore che non scende a patti con nessuno, arriva come una tempesta e spazza via tutto. Sradica gli alberi, scoperchia i tetti. Una mattina cerchi i tuoi calzini ma non c’è più niente, tutto volteggia in aria. È passato un turbine e ha rimescolato ogni cosa, e tu ci sei dentro. Nel vortice.
Io l’ho conosciuto, un amore così. L’ho conosciuto davvero e ve lo voglio raccontare.

    Comincio dal 1995, quando ho incontrato la donna della mia vita (questa espressione non mi piace, ma nel mio caso rende l’idea). Dunque, la donna della mia vita si chiama Marisa, ha quattro anni meno di me. L’ho conosciuta d’estate, in un albergo di Sottomarina. Avevo terminato l’università, una buona laurea in ingegneria nautica, ma per il momento dovevo arrabattarmi con lavori stagionali. Marisa invece aveva rotto con i suoi, era andata via di casa e doveva darsi da fare per restare a galla.
La nostra storia è presto detta. Facevo il portiere di notte, e di giorno lavoravo per qualche ora al bar di questo piccolo albergo sul lungomare, vendevo gelati. Marisa era la factotum dell’hotel: pulizie, servizio in camera. Quando occorreva mi dava una mano al bar. Turisti austriaci, tedeschi. Famiglie. La sera Marisa veniva a farmi compagnia alla reception (uno stanzino d’ingresso, per la verità). Si sedeva sopra il banco, chiacchieravamo. Lei mi parlava delle sue ambizioni: iscriversi di nuovo all’università, terminare psicologia. Io sognavo di progettare una barca per ciechi. Navigare a occhi chiusi, nella notte senza stelle, per sempre.
 
In un’estate intera, da giugno a settembre, non ci siamo scambiati neanche un bacio. Mi sono reso conto di essere innamorato in autunno inoltrato, quando non la vedevo da più di un mese. Era la fine del 1995, la Nato bombardava Sarajevo, gli italiani votavano no alla riduzione della pubblicità televisiva, a Palermo si apriva il processo a Giulio Andreotti per associazione mafiosa, io scoprivo che mi mancava Marisa. Ero tornato ad abitare a Mestre, dividevo una stanza in affitto con un altro ex studente come me, e quella ragazza mi mancava. Di lei mi restava soltanto il suo nome di donna d’altri tempi, un nome da femmina adulta, fattiva, un po’ abbondante, una che si dà da fare nonostante le tette che la ingombrano: stamattina c’è da lavorare sodo, le colazioni da preparare, le camere, ventidue letti sfatti, i bagni sporchi, cosa c’entra tutta questa sensualità, questi sguardi dei maschi sul mio seno? Me la ricordavo così. Mi piaceva che avesse un progetto, nella vita, diventare psicologa, e che volesse farcela da sola. La ammiravo. Non è stato facile ritrovarla. Non era ancora l’epoca dei telefonini e delle e-mail.

I baci che non ci eravamo dati durante l’estate sono scoppiati tutti insieme, la prima volta che ci siamo incontrati di nuovo, una sera di dicembre.
“Come mai abbiamo rischiato di perderci di vista?”, le ho chiesto riprendendo fiato, mentre le accarezzavo i bei capelli pastosi.
“Io ci contavo, che ti rifacessi vivo,” mi ha risposto Marisa con il suo sorriso morbido.
“Davvero? Pensavo di non piacerti, a Sottomarina.” Ero sincero.
“Mi piacevi, ma avevo paura che per te fosse una cosa estiva. Se avessimo fatto l’amore quest’estate… Non so, mi puzzava di passatempo fra colleghi.”
“E se invece non ti cercavo?”

All’inizio del 1996, poco dopo le dimissioni del governo, io e Marisa siamo andati a vivere insieme. Abbiamo unito le forze e siamo riusciti a prendere in affitto un monolocale con cucinino. Il divano letto lo aprivamo ogni sera e lo richiudevamo il mattino dopo, perché occupava tutto lo spazio della stanza. I fine settimana il divano letto restava aperto giorno e notte, ci rimbalzavamo sopra tutti e due nudi, ridendo.
Per riprendere l’università, Marisa ha trovato lavoro a Padova, alla facoltà di medicina: si rendeva utile a seconda delle necessità, faceva le pulizie, lavava i cadaveri, li preparava per le lezioni di anatomia. Le era comodo perché così poteva frequentare qualche corso di psicologia lì vicino. Studiava anche di notte e nei fine settimana, distesa sul divano letto. La sua tenacia mi lasciava sbalordito, dava forza anche a me. Lavoravo tantissimo anch’io, qualunque lavoro, corriere espresso, lezioni private di matematica. Di quegli anni ricordo il dispendio totale, il consumo spensierato di noi stessi. Io e Marisa eravamo una catasta di carbone da bruciare per scaldare la caldaia e spostare avanti la locomotiva, pesantissima, con allegria.
In cinque anni Marisa si è laureata in psicologia, ha completato il tirocinio, ha superato l’esame di ammissione all’albo degli psicologi. Io sono riuscito a farmi valere in un cantiere navale. Disegnavo motoscafi per quasi-ricchi bisognosi di dimostrarlo. Sono tornati di moda, i motoscafi.

È stato in quel periodo, verso la fine del 2001, che abbiamo dato un’altra svolta al nostro progetto di vita (anche questa è un’espressione che non mi piace, ma come chiamarlo?). Marisa aveva preso in affitto un piccolo studio; come psicologa professionista stava mettendo su un giro di pazienti. Era strano vederla dispensare consigli a pagamento a persone molto più anziane di lei su come vivere un po’ meno peggio. Una volta è tornata a casa trionfante perché una sua paziente, frigida dalla nascita, aveva vissuto il suo primo orgasmo col marito, si era sbloccata grazie alle direttive di Marisa. Io avevo finalmente uno stipendio. Così abbiamo acceso un mutuo. Marisa ha detto proprio così: “E se accendessimo un mutuo?”. Su questo punto ci tengo a precisare una cosa, sennò non si capisce come funzionavano i rapporti fra noi due. Quando una coppia affiatata arriva a parlare di mutuo per la casa, si dice che l’amore ormai puzza di pantofola. E invece Marisa si infervorava, ogni volta che si occupava di cose pratiche, ed eccitava anche me, con i suoi capelli sensuali e il suo bel seno pieno, colmo di tette. Ricordo che in quei giorni facevamo l’amore confrontando i prospetti delle banche, le tabelle dei tassi e dei rateali. Era la fine del 2001 e si ragionava ancora in lire, io e Marisa ratificavamo le nostre fondamenta abitative nei giorni in cui il parlamento autorizzava la partecipazione delle truppe italiane alle operazioni militari in Afghanistan.

È difficile rendere il sapore della nostra unione in poche parole, ma se può servire a dare un’idea, in neanche tre anni abbiamo avuto due figli, Gianluca e Matilde (il nome della piccola l’ho proposto io, è un altro di quei nomi che mi fa pensare a una donna d’altri tempi, solida, sensuale, saggia, volitiva, lievemente sovrappeso).
Marisa ha continuato a seguire i suoi pazienti per tutte e due le gravidanze, fino alle prime doglie, e ha ripreso a riceverli in studio una settimana dopo il parto, tutte e due le volte. Era contenta, sembrava che nulla le pesasse, non mi capacitavo di come facesse, mi dava forza anche solo immaginare il suo sorriso morbido, pensare il suo nome.

Quello che vi ho raccontato finora non è che un’introduzione, perché un giorno del 2005, due anni fa, Marisa mi ha detto che aveva perso la testa per un uomo.
“Ti lascio, non voglio niente, tieni pure la casa, anche i bambini, ti prometto che non li pretenderò mai.”
Queste cose naturalmente Marisa me le ha dette con un discorso un po’ più lungo di così, ma non tanto di più. Invece si è dilungata su un’altra questione: ci teneva a spiegarmi perché.
“È il minimo,” mi ha detto, “devo spiegartelo bene, altrimenti mi prendi per pazza, una sciagurata. Ho l’obbligo di giustificarmi. Te lo devo.”
Così ho ascoltato le sue ragioni. Quest’uomo, che si chiama Nereo, le ha dato la passione totale, le ha fatto toccare l’apice, il centro rovente della vita, la lava azzurra del vulcano: così ha detto Marisa. Per farmi il ritratto della sua felicità, ha usato proprio queste espressioni generiche, queste “metafore”: apice, vulcano, lava abbagliante di colore azzurro. Di questo (non aver descritto le cose alla lettera) devo dire che le sono ancora riconoscente. L’uomo che le ha fatto perdere la testa, come dicevo, si chiama Nereo, è un poco di buono che entra ed esce di prigione per piccole truffe e reati minori. Marisa lo ha voluto conoscere per curiosità, perché una sua paziente gliene aveva parlato, dato che ci diventava matta anche lei.

La donna della mia vita, da due anni, condivide la sorte di quest’uomo. Sono già entrati e usciti di prigione per un furto in una bottega. Ovviamente lei ha mollato la professione.
A volte li incontro per la strada. Sembrano due barboni, sono molto trasandati, sporchi, mi salutano sbrigativamente ma senza cattiveria. A lui manca un dente davanti, non è né giovane né vecchio. Marisa è sempre bellissima, anche se i capelli le pendono ai due lati della testa, un po’ unti.
Ho fatto di tutto per aiutarla. Le ho pagato un avvocato al processo, a lei e al suo uomo, senza che Marisa lo sapesse. Un investigatore privato ha scoperto che dormono dentro il capannone di una piccola fabbrica chiusa, verso Zero Branco. Ho cercato di procurarle un lavoro, di farle arrivare soldi, vestiti, cibo. Marisa e Nereo hanno capito subito che quei pacchi anonimi, pieni di biancheria e scatolette, arrivavano da me. Me li hanno riportati sotto casa, di notte. La prima volta con un biglietto gentile, “Non abbiamo bisogno, grazie”. Poi con un secco: “Per piacere, smettila.”
L’ultima volta che l’ho vista mi è sembrato che fosse incinta, ma non potrei giurarlo. In effetti, non credo di averla guardata in grembo. Forse ho pensato che fosse incinta perché era radiosa, sì, non c’è altra parola, assolutamente radiosa.


Tiziano Scarpa


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Smemoranda 2008


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