
Anno Domini 2004. Luogo, Osservatorio Astronomico di Roma.
Sono una giovane Padawan dell’astrofisica, e sto facendo la mia tesi di laurea. Tutti i miei dati sono sui server dell’osservatorio, su un disco specifico da qualche parte là nei sotterranei sotto la cupola del telescopio, in quella stanza gelata nella quale sarò entrata due volte in tutta la mia vita. Tutti i dati significa tutto il mio lavoro, per essere chiari: immagini grezze, elaborate, grafici. Svariati mesi di lavoro, per quantificare.
Avrei dovuto capirlo dal nome del server, che era destinata a finire male. Ishtar, l’ambiguissima divinità Babilonese, dea dell’amore, certo, di quello sensuale, nello specifico, ma pure dea della guerra. Divinità benefica, portatrice di amore, pietà, ventre che maternamente custodisce il mio lavoro. Ma anche stronzissima dea malvagia, portatrice di tempeste. Un po’ tipo Daenerys di Games of Thrones, ecco. O come le versioni di greco, che uno stesso termine lo puoi tradurre buono, bello, brutto e cattivo, e se toppi ti sei giocato la sufficienza al compito in classe, perché travisi tutta la versione. Lei. Che una bella mattina decide di scatenare la sua possanza malvagia. E quindi niente, se ne va in un olocausto purificatore, restituendo al paradiso binario pieno di 0 e 1 tutti – tutti – i miei dati.
Me lo dice con faccia funerea Luigi, che è la mia guida in questo labirinto di tesi con cui sono alle prese.
“Ishtar si è bruciato. Hai perso tutto il lavoro” e io resto lì così, annichilita. Ho estratto la carta sfiga e torno alla casella uno. A rifare tutto da capo. Tipo l’incubo di chiunque.
E quindi niente. Da allora mi circondo di duecento miliardi di copie del mio lavoro. Copia sul cloud, copia su pennetta USB, copia su hard disk, copia a mano tipo amanuense. Cambio due virgole a un testo e copio. Sto copiando anche adesso, a ripetizione. Perché mai più senza. Mai più senza backup.