Che bei denti che hai. Bianchissimi. Levigati. Fasci di luce su file ordinate. Scosta il labbro superiore col dito. Guardali. Mmmm… i miei canini così aguzzi. 
ogni mattina rubavo tempo prezioso a esaminarmi la dentatura allo specchio. Sapevo che un giorno o l’altro quei canini si sarebbero dati da fare.
Il giornalismo da carta stampata mi aveva stancato: Mucchi di interviste senza risposte, inchini ossequiosi alla rockstar di turno. Da dove vieni, cosa fai, dove andrà a parare la tua verve musicale… Basta. 
La rockstar sarò io. Vera rockstar. Rockstar assoluta. Il mio sogno raggiungibile. Miei amati canini, datevi da fare.
Il 23 gennaio ho bussato alla porta del Boss, vecchia vecchia conoscenza. Si fidava ad occhi chiusi di me, Bruce Springsteen.
Mentre mi sedevo di fronte a lui, studiavo in una frazione di secondo la tattica. Mi sentivo un novellino. 
Beh, abbiate pazienza. Era la mia prima vittima. La stilo rotolava giù e lui si sporgeva dalla poltrona per raccoglierla. Troppo gentile, Boss. 
Poverino, come restavi immobile mentre ti affondavo i canini nel collo. Eri un idolo da buttar via, ormai. Non avresti mai spifferato nulla, perchè la tua memoria avrebbe fatto piazza pulita di ogni cosa. I fori? Minuscoli, rimarginabili in pochi minuti.
Mentre succhiavo gli rubavo chili di talento. L’ispirazione di Nebraska, l’enfasi barricadera di Born in the U.S.A., i segreti dei pezzi che stava per mettere nero su bianco. I miei passi, mentre tornavo a casa, erano musica meravigliosa. Stavo bene. Senza rimorsi. Se solo avessi voluto, avrei potuto già firmare un contratto. Ma non è sufficiente il meglio di Springsteen per vestirti da rockstar.
E’ poco, devi aggiungere altri tasselli al tuo puzzle maniacale. Il guizzo geniale, la mossa ammiccante da consumato animale da palco. I tuoi colleghi pennivendoli non ti riconosceranno più. Saranno loro a inchinarsi e sarai tu a decidere se lasciare o meno i tuoi profondi pensieri musicali.
Il 3 febbraio consultavo la mia agenda. Avrei dovuto incontrare David Bowie in Central Park. Il Duca che fa jogging e che mi spiffera cose inenarrabili.
Eccolo. I miei occhi lo stavano già fotografando. Un puntino, là, in fondo al viale alberato. Mentre le mie Nike graffiavano l’asfalto, torturavo con la lingua i miei canini appuntiti. Non si è reso conto di ciò che stava succedendo.
Lo afferrai per il bavero della tuta e finimmo entrambi in una siepe.
Ehi, Ziggy Stardust, cosa ti sta succedendo? Sei pallido. Space Oddity mi rimbomba nel cervello, rifare Heroes è un gioco da ragazzi. Sto ingoiando il tuo carisma, vecchio istrione.
In quattro mesi avevo succhiato il succhiabile: il cinismo di Madonna, la folla di Frank Zappa, la slowhand di Eric Clapton, gli occhiali in technicolor di Elton John, la smorfia di Mick Jagger, l’altra faccia africana di Peter Gabriel. Il mio grande sogno trascoloriva in realtà. Io, a quei canini, avrei dato il Grammy Award.
La classifica di Billboard decretava la mia vittoria: nella Hot 100, Bruce Springsteen non ci aveva messo più piede. David Bowie, questo sconosciuto. Eric Clapton, come se non fosse artisticamente mai nato. Madonna, una sgualdrina da due soldi.
Intanto, stipulato il contratto, avevo già inciso il mio primo album. Ed era già là, incollato al primo posto. Poi, quella maledetta notte da buttare alle ortiche. Una massa di pubblico adorante, aspettava che dessi il via al mio primo concerto. Imbracciavo la chitarra come Rambo.
La mia bocca, a un soffio dal microfono, stava per rovesciare addosso al pubblico testi di inaudito spessore esistenziale, sociopolitico, demenziale. E invece niente. Ne uscì fuori, smozzicato, il ritornello dei ritornelli: “… Ground control to Major Tom… Born in the iu-es-eii… Like a virgin…”. 
Ero in tilt. Non riuscivo a respirare e la mia chitarra produceva svisate heavy metal, impennate blues, saltafossi reggae, country al latte e miele.
Adesso che sono qui, senza un filo di rumore intorno. Fra quattro pareti bianche e ovattate. con le mie braccia serrate lungo i fianchi da un camice troppo stretto per essere solo un pigiama. Qui. Tanto se canto nessuno mi ascolta. Chissà fino a quando. Mi chiedo: riuscirò mai a incidere un disco? A diventare una rockstar? E’ un’irrealizzabile utopia? Eppure non era più un sogno. Miei adorati canini. Se volete, posso tornare a fare il critico musicale. 
Meglio di niente.


Stefano Bianchi


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