Il corridoio al quinto piano del palazzo vetrato era di un bianco puro appena sporcato di grigio allo zoccolo, in un’ostentazione di candore così esplicita e arrogante che solo all’archistar che l’aveva ideata sarebbe venuto in mente di definirla “minimalismo”. Gente geniale gli architetti, capaci di coniare slogan formidabili come quel Less is More che non significa assolutamente niente, ma ti fa sentire come se fino a quel momento avessi vissuto di eccessi nell’apoteosi ridondante del kitch, invece che in fighissime camere spartane arredate con scaffali industriali in acciaio cromato al posto delle librerie, ma rigorosamente senza libri, sennò che minimalismo è. Il dottor Franceschi ripeteva spesso che tutti loro avrebbero dovuto imparare strategia di marketing dagli architetti, maghi assoluti nel vendere l’altrove, differenti da loro solo nell’onorario e nella considerazione della gente. Questo mostro a milioni di teste, la gente, adora gli architetti quasi quanto odia i pubblicitari, e nessuno capisce il perché. Ad Andrea il suo lavoro piaceva molto e non ci trovava proprio niente di vergognoso a dire che si guadagnava la vita scrivendo jingles e ideando slogan per vendere prodotti. Se l’economia regge il paese e la pubblicità è la spina dorsale dell’economia, significava che erano quelli come lui che reggevano il paese a colpi di cavallo goloso e delfino curioso. Il rumore lieve del passo di Giulia che accanto a lui affondava i tacchi nella folta moquette color panna lo distrasse da quei pensieri, riportandolo al presente dell’imminente riunione.
“Frani dice che questo brainstorming è per uno dei nostri clienti più importanti. Hai capito chi?”
“No, non mi ha dato nessun elemento…”
Entrarono nell’ampia sala senza bussare, trovandola già in parte occupata da altre quattro persone che stavano sedute attorno al tavolo centrale, ciascuna con il block notes aziendale aperto davanti, a rappresentare la miglior squadra di creativi che lo studio Franceschi poteva mettere in campo con chi poteva permettersela. Nessuno di loro aveva più di quarant’anni, tutti avevano lauree e master in grafica, comunicazione, qualcuno anche lettere, e tanta abitudine al lavoro di squadra. Le donne erano in leggera minoranza, ma spesso erano loro ad avere le idee migliori; Giulia in particolare era davvero bravissima con gli exploit alla fine di inconcludenti sessioni creative, lasciando gli altri frustrati e stanchi ad alambiccarsi sull’abisso della propria inadeguatezza. Cesarini, la chiamavano tra di loro con più di una punta di invidia. Andrea sperava che non fosse quello il giorno dell’ennesima scintilla della collega, ma che per una volta toccasse a lui stupire il vecchio con l’idea buona per il cliente che contava. Salutarono informalmente e sedettero ai soliti posti, scambiando convenevoli con gli altri colleghi per ingannare l’attesa.
Franceschi entrò dopo pochi minuti, posando il cellulare sul tavolo davanti al posto riservato all’art director, quello più vicino alla lavagna a fogli mobili su cui abitualmente lavoravano. Non aveva fogli né penna e non accennò a sedersi.
“Ragazzi, spero che siate riposati, perché abbiamo un cliente importante che sembra interessato ad entrare in agenzia, e nella prossima ora voglio tirare fuori il meglio di cui siamo capaci.”
“Di chi si tratta?” Antonio, il calabrese laureato in lettere e trapiantato a Milano, diede voce alla curiosità di tutti.
“A dire il vero preferisco che lavoriate senza saperlo. Questo è uno dei tipici casi dove il troppo noto guasta la visione innovativa.”
I copy si guardarono solo per un attimo, ma senza vera sorpresa. Era già capitato di lavorare così, il vecchio aveva i suoi tic e bisognava riconoscergli che il più delle volte funzionavano davvero.
“Dobbiamo promuovergli un prodotto specifico?”, azzardò Andrea.
“No, non è una campagna di vendita. Il problema di questo marchio è piuttosto quello di gestire l’eccesso di domanda. Stiamo parlando di gente già posizionatissima sul mercato.”
“Monopolisti?” Giulia sembrava eccitata dalla caccia al tesoro.
“Diciamo oligopolisti. Come loro ce ne sono un’altra mezza dozzina.”
Le ipotesi a questo punto si riducevano drasticamente, ma per capire il segmento di mercato mancava un’ultima fondamentale domanda. Mentre la biondina veneta la poneva, gli altri prendevano nota.
“Pubblico o privato?”
“Entrambi, Sandra.” “È un Ente compartecipato”, Franceschi sorrise sornione, come se la cosa fosse per lui fonte di qualche segreta soddisfazione.
“Vogliono una campagna istituzionale, quindi.”
“Non nel senso classico del termine. Vogliono portare la gente a vederli da una prospettiva completamente diversa, staccando il marchio dal prodotto. Ecco perché non vi interessa sapere chi sono, almeno in questa fase.” Franceschi li guardò in silenzio per qualche secondo, poi concluse: “Cominciate a sparare, dai. Vi dico io se state mirando male!”
Erano quelli i momenti in cui Andrea pensava che essere creativi fosse davvero divertente, quelli dove la tabula rasa è così inclinata che puoi sperimentare la vertigine assoluta dell’immaginazione in caduta libera. Sapeva che dopo sarebbero venute le rogne, le infinite rifiniture, gli stravolgimenti di un’idea buona per una meno buona solo perché il committente si credeva geniale creativo a sua volta. Silvio, il copy torinese che amava il fantasy e stava seduto accanto a Giulia, lo ripeteva almeno una volta al giorno: Il paradiso è la tua idea, l’inferno è la stessa idea con le modifiche richieste dal cliente. Ma quello era il momento dell’Eden. Cominciarono a mettere a fuoco l’obiettivo.
“Dobbiamo farli diventare più buoni?”
“Decisamente, ma niente di melenso, non è gente che vende pasta.”
“Ok. Allora più impegnati, tipo beneficienza, ricostruzione post terremoti, bambini africani, cause del genere?”
“Banale. Da voi mi aspetto di meglio di quello che hanno già fatto gli altri.”
“Hai ragione, scusa, è roba inflazionatissima.”
“Allora escluderei anche l’ambiente, dalla carta igienica alle mentine ormai tutti piantano alberi e proteggono orsi.”
“Esatto. Voglio qualcosa di meritorio, ma che non faccia leva sul senso di colpa del target.”
Per le due ore consecutive la sala fu un poligono di tiro. Alla fine Antonio sbattè nervosamente la penna sul blocco, di piatto. La stizza per l’inconcludenza gli bruciava come sempre metà delle energie.
“Io non ci riesco a pensare senza avere la minima idea del prodotto o del cliente. Un minimo di paletti mi servono! “
Franceschi non si scompose.
“Ok.” concesse pacato con studiata noncuranza “Fai finta di lavorare per la Galleria degli Uffizi.”
Rimasero interdetti, mentre Andrea si malediva per non averci pensato prima. Oligopolista, problemi d’eccesso di domanda, stereotipi da combattere, ente compartecipato. Aveva tutte le caratteristiche del committente, quindi con ogni probabilità era proprio il committente e Franceschi li prendeva per il culo, facendo credere loro di star lavorando al buio. Stavolta non si sarebbe fatto fottere dalla prima della classe.
“Allora ci sono! La chiave è l’arte!”
“Cioè?”
“I giovani artisti! Potrebbero vendersi come mecenati della creatività emergente. Pittori, musicisti, scrittori, performers… tutti sponsorizzati dal cliente in un’opera precisa.”
“Uhm… come moderni Lorenzo il Magnifico?”
“Direi più tipo la birra con la musica, avete presente? Crei un evento, ci associ il tuo nome e spingendo la stampa a parlarne la costringi anche a riferirsi direttamente al marchio. Non devono nemmeno scriverci che è pubblicità redazionale!”
“Questa non è male”, concesse Franceschi. “Come la realizzeresti?”
“Beh… non è che prenderei proprio dei talenti sconosciuti presi per strada. Magari qualcuno già un po’ noto, ma non propriamente famoso, uno di quegli artisti che si è visto su You Tube, per esempio. Un graffittaro. Oppure, come si chiama, quella performer della sabbia, Ylana qualcosa, che fa i disegni con le mani e la sola sabbia.”
Andrea era infervorato, si era alzato in piedi e parlava gesticolando. Franceschi lo ascoltava attento insieme agli altri.
“Continua. Mi piace molto.”
“E poi scrittori. È pieno di scrittori in Italia, ci sono concorsi, corsi di scrittura, lo so, ne ho fatto uno anche io. – colse qualche espressione stupita e reagì schernendosi – Non ridete, non immaginate quanto serva a fare il copy! Si potrebbe associare il marchio a una scuola di scrittura già nota e lasciare che siano quelli a coinvolgere le penne a sostegno del prodotto.”
“Vai avanti.” Franceschi sembrava sempre più interessato all’idea.
“A tutti si propone l’interpretazione del marchio secondo la propria competenza, li si paga, e mentre si ottiene fama di mecenate illuminato quelli ti realizzano una sorta di galleria d’arte aziendale. Poi dai backstage si fanno gli spot.” Andrea prese fiato, fissando i colleghi e l’art director con la sensazione di non essere mai stato più ascoltato di così… “A quel punto puoi essere la Croce Rossa o una fabbrica di armi, la rivergination dell’immagine è completa.”
Dopo qualche secondo di silenzio, Franceschi si alzò dalla sedia prendendo il cellulare dal tavolo, segno che la parte di riunione che lo riguardava era terminata.
“Per me è buona.” sancì soddisfatto, “Rifinitela. Domani ci rivediamo per i particolari. Ottimo spunto Andrea, davvero.”
Si avviò alla porta, ma Andrea decise di spendere il credito appena raggiunto per soddisfare l’ultima curiosità, quella di tutti.
“Capo, ma abbiamo lavorato davvero per la Galleria degli Uffizi?”
Il vecchio art director lo fissò con un sorriso.
“Naaa.”
Tornò alla lavagna di carta, prese il pennarello e si mise a disegnare quello che sembrava un logo. Davanti agli occhi attoniti dei sei pubblicitari apparve in pochi tratti la sagoma inquietante e deforme, molto familiare, di un cane nero a sei zampe.
“Ecco il nostro cliente. E sarà soddisfattissimo, ci scommetto.”
Franceschi uscì dall’ufficio con lo stesso sorriso con cui aveva disegnato il cane a sei zampe, lasciando i sei creativi a fissare il logo, sbigottiti.