Quand’ero ragazzino, la mia famiglia godeva di grande rispetto.
Il semplice fatto di avere per cognome Venanzis, nella nostra città di duecentomila abitanti, faceva di noi delle persone speciali.
Non eravamo solo ricchi: la seconda piazza del centro storico, orlata da eleganti portici le cui vele erano decorate con affreschi in stile liberty-floreale, portava il nome del trisavolo Osvaldo Venanzis, ufficiale garibaldino e primo sindaco dopo l’Unità d’Italia, mentre la centrale elettrica che dava luce alle case dei nostri concittadini era stata fondata da suo figlio Amedeo, il nonno di mio padre. Sempre lui aveva acquistato il palazzotto dei decaduti conti Stroppa, che sorgeva lungo il Corso, per restaurarlo e farne la degna dimora della nostra famiglia.
Amedeo aveva avuto tre figlie femmine e due maschi, il maggiore dei quali era morto in prigionia durante la Seconda guerra mondiale; fu così che mio nonno Domenico, ancora studente d’architettura, ereditò in maniera insperata le redini del patrimonio. Fu lui a renderci più grandi che mai, spostando gli interessi dei Venanzis dall’energia elettrica al settore delle costruzioni dopo anni di bombardamenti e cannonate, c’era da risanare mezza città, e il Nonno fece sì che le principali commesse finissero nelle sue mani. Quando il centro storico fu rimesso a nuovo, i lavori si spostarono in periferia; negli anni Sessanta, con l’economia che galoppava come non mai, un piccolo esercito di geometri e manovali tirò su dal niente il quartiere residenziale del Laghetto, mentre nel decennio successivo fu la volta delle “Cinque torri”, i primi palazzoni popolari della zona.
Da ogni nuova costruzione, la famiglia ricavava milioni e prestigio, tanto che il Nonno poté regalarsi una villa con approdo privato sul lago di Como, la stessa nella quale sono cresciuti mio padre e i suoi due fratelli.
Se come imprenditore era un fuoriclasse, il Nonno aveva dimostrato parecchi limiti nel ruolo di padre di famiglia: manesco e autoritario con nonna Violetta e la prole, era arrivato a cacciare di casa la figlia maggiore, zia Marta, solo perché ne disapprovava il fidanzamento con un jazzista. Anche il rapporto con Amedeo junior, per noi zio Meme, era stato disastroso: quando il Nonno aveva appreso che il figlio, studente a Milano, era in prima linea nelle manifestazioni studentesche del ’68, l’aveva fatto schiaffeggiare per strada da un paio di bravacci e, alle sue rimostranze, l’aveva diseredato in quanto colpevole di essere comunista.
Così, ancora una volta, il patrimonio dei Venanzis passò, pressoché indiviso, al figlio minore.
Dal punto di vista del Nonno, mio padre era la figura ideale per incarnare la continuità: ubbidiente e perfettamente disinteressato alla politica, Papà aveva rinunciato al suo sogno di organizzare un raid motociclistico in Tibet e si era messo d’impegno per laurearsi, quindi si era prestato a prendere gradualmente le redini della società di famiglia.
Tutto cambiò nel 1980 con la morte del Nonno; i registri della società furono oggetto di spiacevoli attenzioni da parte delle Fiamme gialle, e Papà dovette pagare una multa milionaria al fisco. Per ritrovare prestigio, decise di acquistare la squadra di calcio cittadina, l’Esperia FC, che ai tempi dei pionieri aveva giocato in Seconda categoria nazionale. Dal possesso del club vennero inizialmente grosse soddisfazioni, poi grattacapi, e infine i guai che hanno contrassegnato gli ultimi anni di mio padre.
Quando Papà rilevò la squadra, le casacche biancoblu dell’Esperia erano sprofondate da tempo nell’inferno del calcio amatoriale, ma bastarono una manciata di acquisti ben mirati per riportarle prima in Serie D e poi in C2, alle porte del calcio professionistico. Fu allora che la città si riscoprì tifosa, e con lei tutto il circondario; il nome di Papà era considerato quello di un benefattore, e nessuno si stupì quando venne incaricato di far sorgere un nuovo stadio da 8.000 posti, degno teatro dell’assalto dell’Esperia al calcio maggiore.
Furono quelli gli anni più belli, ancor oggi ricordati dagli sportivi come l’età dell’oro: le bandiere sventolavano alte sul catino stracolmo del nuovo stadio, e i cori risuonavano senza sosta, scanditi dai tamburi e dai richiami delle trombe a gas.
I miei fratelli e io seguivamo gli incontri dalla tribuna insieme a Papà e ai suoi collaboratori, fra i quali spiccava il direttore sportivo Marzio Salice, che aveva agganci ovunque e, una volta, ci portò gli autografi con dedica del grande Diego Armando Maradona.
Fu Salice a infarcire la squadra di veterani e giovani promesse in grado di surclassare la concorrenza; Papà, per accontentarlo, arrivò a spendere cinquecento milioni nel giro di un paio di stagioni ma, quando l’Esperia centrò il traguardo della promozione in Serie C1, l’entusiasmo che suscitò gli valse nuovi contatti e nuove commesse.
“La squadra costa cara, ma è il nostro biglietto da visita” mi spiegò quando gli domandai se avevamo abbastanza soldi per la nuova categoria. “A farsi conoscere come signori, figlio mio, la spesa torna sempre indietro con gli interessi.”
Compresi cosa intendeva quando venne affidata alla nostra famiglia la costruzione del nuovo Acquario Adriatico, e quindi del parco divertimenti Explorer, ispirato al successo dei film di Indiana Jones. Ormai i Venanzis non costruivano solo in città, ma anche in Riviera e ai piedi delle Alpi.
Nell’aria di grandeur che si respirava in città – nella stagione 1987/88, si poteva persino trovare lo scudetto dell’Esperia sull’album Panini! – vennero messi sotto contratto mister Armeni, l’ex portiere di serie A Bibi Barreca, detto “il Puma” e il promettente “bomber di Barzio” Ivan Invernizzi. Fu lui, con i suoi grappoli di gol, a fare dell’Esperia una delle migliori squadre del torneo ma, per due volte, la nostra corsa si arrestò a un passo dalla promozione in Serie B.
Il miracolo riuscì nel ’90, facendo esplodere di contentezza tutta la provincia, e fu la prima volta che vidi Papà davvero preoccupato: in seconda serie bisognava spendere una fortuna semplicemente per stare a galla.
Adesso rimediavamo sconfitte pesanti a ogni trasferta; una volta esonerato Armeni, il mister del miracolo, anche Invernizzi ci lasciò per andare all’Atalanta, e ci trovammo a lottare per non retrocedere.
Quando Salice fu condannato per avere tentato di corrompere un arbitro, fu la fine della nostra pace.
Compresi quanto mio padre fosse ormai odiato dai nostri concittadini il giorno in cui un migliaio di tifosi inferociti marciarono compatti su casa nostra.
“Venanzis fuori dall’Esperia!” recitava lo striscione che apriva il corteo, e a scandire insulti insieme agli ultrà c’erano i miei compagni di scuola, compresi quelli che mi avevano sempre blandito per un abbonamento in tribuna.
Quella volta Mamma ebbe un mancamento; si sentì ancora peggio tre mesi più tardi, quando il nome di Papà apparve sui giornali nell’ambito di un processo condotto da un celebre Pubblico Ministero. Secondo quel tale, mio padre aveva ottenuto i permessi per costruire il parco Explorer dietro il pagamento di una cospicua mazzetta ai politici del luogo. Nessuno di loro confermò, ma il Giudice si convinse che Papà era un corruttore: l’uomo più invidiato della città finì agli arresti domiciliari, e stavolta la multa da pagare fu salatissima.
A vent’anni non ero abbastanza dentro le cose della società di famiglia per sapere se era vero oppure no, ma ero già in grado di misurare la velocità alla quale le cose andavano precipitando: mio padre invecchiò rapidamente, convinto di avere subito un torto dallo Stato, e s’intestardì a non voler vendere l’Esperia nemmeno quando i tifosi gli fecero trovare una testa di maiale sul cofano della Mercedes.
Gli toccò, in compenso, cedere a un celebre presentatore televisivo la villa nella quale era cresciuto e, prima che noi figli potessimo impedirglielo, liquidò anche la società di costruzioni. Se ne liberò senza avvertire nessuno, e ne ricavò abbastanza denaro da regalare una palazzina e un consistente pacchetto di azioni di borsa a ogni figlio.
Intestò a Mamma l’ex dimora dei conti Stroppa, e per sé tenne unicamente la squadra: ormai avvelenato col mondo, diceva che i tifosi erano una manica d’ingrati, e voleva essere certo di riportare l’Esperia esattamente dove l’aveva prelevata, nell’inferno del calcio dilettantistico.
Ci riuscì senza troppa fatica, semplicemente evitando di pagare l’iscrizione al torneo di C2, ma per noi era una pena vedere come la famiglia Venanzis avesse ormai perduto il rispetto della gente. Adesso in città lo chiamavano “il vecchio maledetto”, e provammo una quantità di volte a blandirlo perché vendesse la squadra. Finché visse, però, non ci fu niente da fare: era stato lui a costruire lo stadio, e per anni restò l’unico spettatore che avesse voglia di sedersi al suo interno per assistere alle maldestre battaglie fra amatori. Negli ultimi anni, ormai in sedia a rotelle, doveva spingerlo all’interno dell’impianto una badante, ma Papà non perse fino all’ultimo il gusto macabro di quel rituale: voleva essere sicuro che l’Esperia perdesse con regolarità anche in Eccellenza, Promozione e Prima categoria.
È stata Mamma, dopo la sua morte, a passare la patata bollente a noi figli, che ci occupiamo di tutt’altro. Così, quando un abbronzatissimo imprenditore di fuori ha manifestato interesse per rilevare il club, ci è stato di sollievo regalargli il cento per cento delle quote.
Non è chiaro da dove arrivino i soldi del nuovo patròn ma, come Papà, è convinto che la squadra sia il miglior biglietto da visita per i suoi affari. Così ha investito parecchio nel parco-giocatori e finalmente, l’anno scorso, è riuscito a riportare l’Esperia nel calcio professionistico.
I nuovi idoli della risorgente tifoseria biancoblu sono la guizzante ala destra Elvio Zappalà e un centravanti africano di passaporto belga, Patrick Bangoro detto “il Tank”.
In tutta onestà, sarei contento che quei due aiutassero la squadra a farsi onore.
Se pure io e i miei fratelli non ce ne siamo mai occupati di persona, infatti, il nostro destino è intrecciato a quello dei risultati sportivi dell’Esperia.
Solo il giorno in cui la gente riempirà di nuovo lo stadio, il fantasma del “vecchio maledetto” svanirà dalle memorie cittadine; Papà tornerà a essere ricordato come l’artefice di uno straordinario ciclo di vittorie e, nella nostra città di duecentomila abitanti, portare il nome dei Venanzis sarà di nuovo un segno di distinzione.